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Cossiga e l'etica della Giustiza

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Il testo di Francesco Cossiga - che Il Tempo ha proposto all'attenzione dei lettori ieri - risale ad otto anni fa, al 2003, e fu scritto come capitolo conclusivo del bel volume Discorso sulla giustizia nel quale una coraggiosa e piccola casa editrice ha raccolto i più significativi interventi in materia di riforma della giustizia dell'ex Presidente della Repubblica. È un saggio davvero illuminante, che sembra scritto oggi, e sul quale i parlamentari e tutti coloro che, a qualsiasi titolo, si occupano di giustizia e, più in generale, di problemi istituzionali dovrebbero riflettere. E non già lasciarsi andare, come sta avvenendo, a reazioni scomposte e a dichiarazioni minimizzanti. Non si possono liquidare le tesi dell'ex Presidente della Repubblica, come ha fatto per esempio il senatore Gerardo D'Ambrosio, sostenendo che Cossiga non aveva mai avuto simpatia per i magistrati. Il discorso del "Picconatore", infatti, non si limita, in quelle pagine, a individuare i capisaldi di una riforma del sistema giudiziario italiano, afflitto da mali che tutti conoscono, ma ne sottolinea la dimensione politica e culturale, facendo notare come essa, in realtà, finisca per diventare una questione di "etica pubblica" che tocca la coscienza e la dignità del cittadino oltre al suo amore per la libertà. Non è un caso che il volumetto di Francesco Cossiga sia stato dedicato dall'autore "a chi crede nel principio della libertà, nella supremazia del Parlamento e nello Stato di diritto". Tre concetti - libertà, supremazia del Parlamento, Stato di diritto - che oggi, diciamolo apertamente e senza mezzi termini, non sembrano più avere diritto di cittadinanza in uno Stato che, a causa di un sempre più accentuato squilibrio dei poteri costituzionali a tutto e solo vantaggio del giudiziario, sta perdendo le caratteristiche tipiche di una democrazia liberale. Cossiga ha fornito - prima ancora di indicare delle proposte concrete di riforma della giustizia - una lucida analisi storica delle cause, di natura culturale e politica, che hanno portato il paese alla situazione attuale. Ha denunciato la persistenza di una dimensione "giustizialista e poliziesca" della sinistra italiana, rimasta ancora estranea a una vera "legittimazione democratica" dovuta al fatto che essa, a differenza di quanto è avvenuto in altri contesti, non è stata capace di fare i conti con il suo passato e con la sua tradizione comunista. Ha denunciato, ancora, il carattere ideologico di un "giustizialismo" le cui radici più profonde affondano nel terreno di una cultura politica che si fonda sul "giacobinismo di certa borghesia italiana, ad esempio quella azionista" e sulla "tradizione leninista-stalinista del Partito comunista italiano". Ha denunciato infine l'alleanza di questa sinistra con "l'ala militante della magistratura": una alleanza nata dalla tentazione di voler percorrere la "strada giudiziaria al socialismo", ma viziata, a ben vedere, dalla illusione che la coincidenza di "qualche interesse politico" possa evitare alla sinistra di accettare a pieno il potere politica dell'ala militante della magistratura. Si tratta, come si vede, di una analisi magistrale che inserisce le proposte concrete di riforma della giustizia avanzate da Cossiga secondo il modello del cosiddetto "processo accusatorio" - separazione di carriere fra la magistratura giudicante e la magistratura inquirente, ridefinizione della figura del pubblico ministero, non obbligatorietà dell'azione penale e via dicendo - in un quadro di riferimento culturale e in una visione organica del problema. Queste proposte Cossiga le formalizzò in un disegno di legge costituzionale che porta la data del 14 gennaio 1997 e che fu accompagnato da una relazione esemplare per chiarezza e incisività nella quale stigmatizzava il fenomeno della "politicizzazione della giustizia". Questo, a suo avviso, era imputabile, a "una parte della magistratura", ma anche a tanti altri fattori. In primo luogo, alla "amministrazione eccezionale della giustizia", nonché al "tramutamento del "silenzio" dell'indagato da diritto di difesa a elemento, se non addirittura, presunzione di colpevolezza". E poi, ancora, al "capovolgimento del principio della presunzione di innocenza in presunzione di colpevolezza" e all'"uso indiscriminato e massiccio delle intercettazioni di comunicazioni e ambientali". Tutto ciò come conseguenza di una cultura "tardo-gauchista" ma anche come conseguenza della convinzione della legittimità di un "uso dell'amministrazione della giustizia come legittimo strumento di lotta politica" che, a parere di Cossiga, sembrava essere divenuto il credo "ufficiale di una parte del ceto dirigente dell'associazionismo in magistratura oltre che di parte dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura". In questa relazione che accompagnava il disegno di legge costituzionale di Cossiga era contenuto, insomma, un duro e motivato atto di accusa nei confronti della deriva della politicizzazione della magistratura, ma al tempo stesso, trovava spazio l'idea che, in qualche modo, attraverso una seria riforma, fosse possibile evitare la "definitiva compromissione dello Stato di diritto e delle guarentigie dei cittadini". Un appello, a ben riflettere, per una giustizia che sia davvero tale. E non dei giudici politici o dei politici giudici.

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