Nostalgia del picconatore
So bene che la storia, e neppure la politica, si fa con i "se". Ma, anche a costo di farmi tirare le orecchie, come un asino, da uno storico di professione e insieme acuto analista politico come il nostro Francesco Perfetti, e magari anche da Mario Sechi, al quale basta - beato lui - qualche dato statistico serio perché riesca ad allungare lo sguardo e a spiegarci con impietosa razionalità cosa potrà accadere fra qualche anno di e in questa nostra scombinata società, politica e civile, tutta presa a vedere all’indietro, o a contemplare le punte delle proprie scarpe; anche a costo di tutto questo, dicevo, mi chiedo che cosa in questi giorni avrebbe gridato, come solo lui sapeva fare, quel vulcano umano che era Francesco Cossiga di fronte alle nuove, devastanti polemiche attorno alla magistratura. Sulle toghe, sul loro sindacato, sul loro organo di autogoverno, di cui aveva assunto la presidenza salendo nel 1985 al Quirinale senza mai lasciarsene fagocitare, come era accaduto invece a qualche suo predecessore e sarebbe toccato a qualche successore, il compianto presidente emerito della Repubblica aveva idee chiarissime. Lo dimostrano le parole sul tema giudiziario che Il Tempo, un giornale che gli era amico, di un’amicizia tanto spontanea quanto ricambiata, ripropone oggi ai lettori per una felice scelta del direttore. Che, sardo come lui, era uso ancora più di me alle sue confidenze, ai suoi sfoghi, a volte alle sue sfuriate, ai suoi sconforti, ai suoi ritorni dopo mesi di silenzio e alle sue irrefrenabili voglie di cantarle senza freni e riguardi, a tutti e su tutto. È il momento giusto per rileggere le sue parole e respirare con loro un po’ d’aria fresca, in quest’ambiente istituzionale e politico di cupo conformismo. Dove i magistrati tanto più sono noti e protagonisti tanto più si ritengono "intoccabili", per ripetere l’aggettivo criticamente usato nel 1994 davanti al Consiglio Superiore della Magistratura, come abbiamo ricordato qualche giorno fa, dall'allora Procuratore Generale della Cassazione Vittorio Sgroi. Quanto ci manca l’indimenticabile Cossiga. Se fosse stato ancora fra noi, ne sono certo, non avrebbe esitato di fronte all’ultimo processo imbastito contro Berlusconi, addirittura per concussione e prostituzione minorile, a sfottere a sangue il suo amico Silvio, e magari anche a tirargli un bel paio di ceffoni fra le quattro mura della camera da pranzo di una delle sue residenze, ma anche a criticare la solerzia degna di miglior causa della Procura di Milano e a deplorarne le gravi forzature, questa volta pubblicamente. Se fosse stato ancora al Quirinale, Cossiga - sono certo anche di questo - vi avrebbe convocato quel tale ex sindaco democristiano di Turbigo, Roberto Lassini, autore dei demenziali manifesti fatti affiggere a Milano accoppiando le Brigate Rosse alla Procura, per schiaffeggiare anche lui. E, non bastandogli, per prenderlo a calci lungo tutti i saloni, le scale, i giardini e i cortili del Palazzo. Ma prima gli avrebbe chiesto scusa a nome della Repubblica per i 42 giorni di ingiusta detenzione inflittagli nel 1993 per Tangentopoli, su iniziativa proprio di quella Procura, e per i cinque anni e mezzo di processo subìto prima di essere assolto, con una sentenza di primo grado rimasta significativamente senza ricorso da parte dell’accusa. E di tasca sua gli avrebbe dato qualche decina di migliaia di euro, in aggiunta a quei miserabili cinquemila riconosciutigli dalla magistratura per ritardato verdetto: meno di mille euro per ogni anno di causa, insufficienti anche a recuperare le spese sostenute per i legali dall’ex imputato. Visto anche l’uso strumentale che del suo errore hanno immediatamente cercato di fare le opposizioni, attribuendone al presidente del Consiglio una certa ispirazione a causa del malumore da lui espresso più volte per i magistrati che da 17 anni lo incalzano, quel tale Lassini ha fatto naturalmente bene ieri a tagliare corto con tanto di scuse. Ed anche con la rinuncia "irrevocabile" alla candidatura, che pure è giuridicamente non ritirabile, a consigliere comunale di Milano nella lista già depositata dal Pdl. Tuttavia, soddisfatta l’ansia di riprovazione e riparazione comprensibilmente creatasi sulla vicenda, e avvertita pure dal presidente del Senato Renato Schifani, non sarebbe male se il capo dello Stato sentisse ora il dovere di deplorare anche certi metodi adottati dalla magistratura milanese contro quell’imputato molto speciale che è divenuto il presidente del Consiglio. Del quale si trovano, per esempio, nell’ultimo incartamento processuale trascrizioni di telefonate senza l’autorizzazione parlamentare prescritta dalla Costituzione. Si tratta, ripeto, della Costituzione, "la più bella del mondo", come la definisce continuamente quel bontempone di Pier Luigi Bersani polemizzando con chi la vuole riformare.