Il divanista
Postideologicamente parlando, il Parlamento è un po' come il corpo umano nella favola di Menenio Agrippa, un po' piazza d'armi e un po' mercato comunale. E quindi, al di là delle distinzioni formali di gruppi e commissioni, maggioranze e minoranze, ogni parlamentare ha la sua funzione che ne designa una particolare qualità di antropologia politica. C'è il divanista, ad esempio. Il divanista è quella particolare razza di deputato convinto che il Transatlantico sia davvero un natante e che è giusto e doveroso accomodarsi sul suo «ponte lido» a prender politicamente la tintarella. Il medesimo divanista è sempre convinto che la Navicella sia il tender con cui approcciare un bastimento carico di privilegi, grandi e piccoli, e doni sontuosi. Il senatore divanista è quello che si chiede come mai anche il Senato non abbia il suo Transatlantico, e dunque se ne frega e prende la tintarella pure lui. Il divanista, insomma, tra i marmi di contorno e la pelle morbida color gambero arrostito su cui si posa il suo lato b, se fosse un allenatore, sarebbe seguace della teoria dell'attendismo: mi metto in difesa e aspetto che siano gli altri a fare le mosse per poi colpirli in contropiede. Sta fermo e non si muove, perché l'agrippiano corpo parlamentare, se qualcosa non funziona, avrà certamente bisogno anche del suo aiuto. La sua panchina, ovviamente, è uno dei divanetti su cui si fanno e disfano leggi e alleanze e dove anche s'accomodano anche i giornalisti per disporre di una fonte molto ben disposta a discorrere e disegnare tele e immaginare scenari, perché di questi tempi il Parlamento s'attiva solo per qualche infiammata seduta e per il resto lascia molto, molto tempo libero per la chiacchiera. Senza divanisti, gli specialisti di gossip politico farebbero una fatica bestiale a riempire di aneddoti i loro pezzi, ma la crescente moltiplicazione di giornalisti retroscenisti indica che ultimamente il materiale non scarseggia, anzi aumenta che è una bellezza. La panchina, pardon: il divanetto, nel caso del divanista tende a essere sempre la stesso, così che il giornalista sa dove andare e gli altri parlamentari pure, perché di questi tempi, nel vorticoso giro di divise e casacche che scilipuossiamo immaginare, si corre pure il rischio di imbastire un ragionamento con uno che credi sia nell'opposizione – o nella maggioranza, dipende – e alla fine quello lì, sempre stravaccato sul divanetto, assume un'aria serissima e ti comunica che ha deciso di dare una sterzata al suo futuro decisa, improvvisa, ruvida, pure coreografica, ma sempre «seguendo la mia coscienza»: il divanetto non si cambia, il partito forse sì. Nei momenti di confusione e di gazzarra, dunque, il divanista è una certezza, sempre lì sta, pronto a pronunciare il suo «accomodati pure» al collega che lo avvicina per offrirgli non un altro divano ma una poltrona di sottogoverno, o al camerlengo dell'opposizione che gli propone la seduta in altri termini, quasi kennediani: piuttosto che una poltrona in similpelle oggi, meglio una poltrona Frau domani, se facciamo il governissimo. E lui, che intanto non schioda dal divano, non si scompone e dice: «Ripassa, ti farò sapere», perfettamente consapevole che nelle fasi di baraonda e di contabilità nevrotica dei numeri degli schieramenti la sua utilità marginale, l'utilità marginale del divanista altrimenti destinato a ritornare un peone da seconda classe, è diventata altissima. In termini cinematografici, il divanista è una comparsa a cui viene proposta la parte in commedia del protagonista, spesso per caso o perché giorno dopo giorno, passando in Transatlantico, è diventato una figura familiare e allora sì, se c'è uno strapuntino da distribuire se lo prenda lui, se lo prenda. Per questo il divanista non fa mai gruppo, ma solo gruppetto. Il divanista è un riservista dell'ambizione. Coltiva la fondata opinione che non serve sgomitare troppo per far carriera politica, in special modo nelle fasi di maretta e sobbollimento. Quando il corpo parlamentare scoppia come una pentola a pressione lui è la valvolina che lo fa sfiatare. Con l'educazione dell'apparecchiatore di conversazioni da divani, e piccoli talk show densi di suggerimenti pratici, ben profumato e ben pettinato e con cravatta discreta, ottiene molto di più del parlamentare bersagliere e barricadiero: questo parte lancia in resta e va alla carica, rumoreggia in Aula e battibecca sui giornali, quello adotta politicamente l'eterna posizione del ma anche no. Si può fare, ma anche no. Si può cambiare, ma anche no. Si può accettare, ma anche no. Si può appoggiare, ma anche no. Felpatamente. Senza mai assumere posizioni perentorie e definitive, si brucerebbero ponti magari utili in futuro, assicurazioni sulla vita e sul divano a cui ormai, che sia la quinta o la prima legislatura, il divanista non sa più rinunciare. Attende. Scruta. Esamina. Centellina al cronista piccole intuizioni che saranno tesoro di future carinerie. In attesa del ministro che passa e gli chiede: «Scusa, ma tu, con chi stai?» (1. Continua)