Quel carrozzone targato Europa
Che idea si può avere oggi dell’utilità dell’Europa se anche un massimo esponente della politica europea come l’ex presidente della Commissione Jacques Delors arrivò a definire l’Unione «un oggetto politico non identificato»? E da allora l'Europa è rimasta un organismo sui generis. Non una semplice organizzazione intergovernativa (come le Nazioni Unite) non una federazione di Stati (come gli Usa), ma un'entità alle cui istituzioni le nazioni membre delegano parte della propria sovranità nazionale. Una delega su competenze che spaziano dagli affari esteri alla difesa, dalle politiche economiche, all'agricoltura, dal commercio alla protezione ambientale. Un pacchetto di attività che però costa a ogni cittadino comunitario la bellezza di 235 euro all'anno. Questo almeno stando all'ultimo bilancio pubblicato sul sito ufficiale dell'Ue che ammontava, nel 2009, a circa 133,8 miliardi di euro. Esattamente l'1% della ricchezza prodotta ogni anno dai Paesi dell'Ue. Una percentuale decisamente esigua se si confronta al restante 99% della ricchezza che rimane ai 27 dell'Unione ma che, se si analizzano i capitoli di spesa che compongono il budget, dimostra come l'Ue rischia di trasformarsi in un carrozzone di burocrazia che l'Italia non può più permettersi. La maggior parte di quel denaro è spesa per migliorare le condizioni di vita dei cittadini e delle comunità locali dell'Ue. Così, mentre i cosiddetti «Maialini d'Europa» (dall'inglese PIGS, acronimo di Portogallo-Irlanda-Grecia-Spagna) passano da eurosalvataggio in eurosalvataggio, con conseguenze sempre più gravi per l'Euro, in Italia ci si inizia a domandare quanto costa far parte dell'Ue. Una risposta che arriva da Oreste Rossi, eurodeputato leghista (partito da sempre euroscettico): «Nel triennio 2007-2009 l'Italia ha versato all'Europa 44,3 miliardi di euro ricevendone come contributi finanziari solo 23,1, una cifra pari al 52% dei soldi versati». In altre parole l'Italia sembra non aver bisogno di finanziamenti europei e quindi i soldi che vengono mandati a Bruxelles non ritornano. Se a questo divario economico si aggiungono poi, come continua Rossi, «molte norme burocratiche comunitarie, negative per noi» allora la frittata è fatta. E infatti, se molta della nostra economia si basa sull'alimentare e sull'agricoltura, l'Unione con il passare degli anni ha dimostrato poca attenzione nel tentare di tutelare gli interessi di agricoltori e allevatori. Nel 2003 ad esempio il «Times» scrisse che gli allevatori di maiali avrebbero dovuto mettere un giocattolo in ogni porcilaia per tenere felici gli animali ed evitare che si mordessero. La legge europea, in realtà parlava di «materiale manipolabile» per soddisfare le esigenze comportamentali dei maiali. Non si può però negare che l'obbligo apparisse eccentrico. Ma non solo gli allevatori venivano colpiti dalla burocrazia ma anche i produttori di vino che nel 2006 si trovarono a fare i conti con l'ennesima stravaganza europea. Infatti il Comitato vitivinicolo di Bruxelles aveva dato il via libera all'invecchiamento artificiale dei vini con infusione di trucioli di legno. In altre parole non era più il vino a invecchiare dentro il legno, ma era il legno a essere messo nelle bottiglie. Sono stati però gli agricoltori a subire i colpi peggiori da parte dell'Europa. Era il 2008 e nella bufera finirono 36 tipi diversi di frutta e verdura. E così si decise che una buona zucchina doveva misurare da 7 a 35 centimetri per un peso tra 50 e 450 grammi, una mela non poteva avere un diametro inferiore ai 55 millimetri, mentre una pesca non doveva scendere sotto i 51 d'inverno e i 56 d'estate. Infine, la fragola doveva oscillare tra i 15 e i 25 millimetri ma, se di bosco, non aveva limiti. Per finire con le verdure: dopo la storica "legge del cavolo" a cui dedicò un saggio di Achille Campanile, toccava al fagiolino essere messo a nudo con una regolamentazione su altezza, colore, buccia, filamenti, larghezza, peduncoli e numero di semi. Ma quanto «pesa» tutta questa burocrazia? Per l'esecutivo di Bruxelles l'azienda Europa costa meno del 6% del bilancio totale dell'Unione. Un assegno che nel 2009 valeva 8 miliardi di euro e serviva a far funzionare un ingranaggio composto da nove istituzioni, tre sedi geografiche separate e 27 Paesi rappresentati. Ma anche in questo caso sembra non si voglia far nulla per mettere fine a una peculiarità tutta europea: avere un Parlamento diviso in due città diverse. Una cosa che costa ai contribuenti circa 200 milioni di euro all'anno e che, anche grazie al veto dei francesi che non vedono di buon occhio la sede unica a Bruxelles, sembra non cambierà per molto tempo ancora. Almeno fino a quando l'Unione sopravviverà.