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Il colpo basso dei magistrati

Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, all'uscita di Palazzo di Giustizia di Milano per il processo Mediatrade

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Delle due l'una. Alla Procura di Milano o sono terribilmente diabolici o sono incredibilmente sfigati. Altro non si riesce a dire di fronte allo stupore manifestato dal capo di quell'ufficio, Edmondo Bruti Liberati, per le tre o più telefonate del presidente del Consiglio sfuggite agli omissis imposti dalla sua qualità di parlamentare e rimaste arbitrariamente fra le 20 mila pagine depositate agli atti del processo Ruby. Che si apre oggi con il cosiddetto, roboante rito immediato. La registrazione di quelle telefonate, per il cui uso giudiziario occorreva chiedere l'autorizzazione alla Camera, non aggiunge praticamente nulla al bagaglio delle accuse di concussione e di uso della prostituzione minorile rivolte a Silvio Berlusconi. Sono utili, ora che se ne conosce il contenuto, solo a danneggiarne ulteriormente l'immagine perché lo mostrano alle prese con affari non di Stato ma di pelo. Servono insomma a sputtanarlo, per usare una franchezza di linguaggio doverosa con i lettori. D'altronde, lo sputtanamento del presidente del Consiglio è apparso sin dal primo momento l'effetto oggettivamente prioritario del procedimento avviato dalla Procura milanese con un impiego eccezionale di uomini e di mezzi: eccezionale, vista anche la carenza di organico e di fondi lamentata di recente dallo stesso capo dell'ufficio per contestare la precedenza data ad altri aspetti del sistema giudiziario dalla riforma della giustizia messa in cantiere dal governo del Cavaliere. In attesa che il buon Bruti Liberati si faccia un'idea di come e perché siano rimaste negli atti del processo Ruby carte che dovevano restarne fuori, e magari promuova le debite iniziative contro i responsabili, ci sia consentito di rilevare quanto meno la frequenza francamente insopportabile degli incidenti, chiamiamoli così, che si verificano nei suoi uffici e dintorni. Non sono mancate in passato conseguenze persino mortali, se ricordiamo, fra l'altro, i suicidi di Sergio Moroni, Gabriele Cagliari e Raul Gardini fra il 1992 e il 1993, durante la stagione di «Mani pulite». Appartiene al capitolo degli infortuni impuniti della Procura di Milano anche il famoso avviso di garanzia al già allora presidente del Consiglio Berlusconi nell'autunno del 1994, notificatogli praticamente a mezzo stampa, visto che l'interessato ne conobbe l'esistenza da un titolone di prima pagina del Corriere della Sera. Tutto avvenne con una tempistica mediatica e politica che irritò pubblicamente persino l'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, di certo non sospettabile di insofferenza o di ostilità verso i suoi ex colleghi magistrati. Quell'avviso, riguardante peraltro un procedimento destinato a risolversi nell'assoluzione di Berlusconi, arrivò mentre l'indagato era ancora impegnato a presiedere a Napoli un summit internazionale sulla lotta alla criminalità. E accelerò lo sganciamento dal governo già avviato dalla Lega, con il conseguente approdo alla crisi. Esso fornì inoltre l'occasione all'allora sostituto procuratore della Repubblica Antonio Di Pietro di offrirsi al suo superiore, Francesco Saverio Borrelli, per «sfasciare» Berlusconi con un interrogatorio dei suoi. L'operazione l'avrebbe poi proseguita come politico. È un'altra delle combinazioni diaboliche della Procura milanese, che da quegli anni è passata più volte di mano ma senza uscire mai da quel clima. È curioso che, fra i protagonisti di oggi, ad avvertire e denunciare per primo l'anomalo clima giudiziario di Milano non sia stato Berlusconi. Al quale il segretario dell'Associazione Nazionale Magistrati Giuseppe Cascini non perdona di avere recentemente definito la Procura ambrosiana una specie di «avanguardia rivoluzionaria»: tanto non glielo perdona, da avergli appena contestato «la legittimità storica, politica, culturale» e non ricordo cos'altro ancora per proporre e sostenere una riforma della giustizia. No, ad avvertire e denunciare per prima quel clima fu Ilda Boccassini, sì proprio lei, l'attuale accusatrice di Berlusconi nel processo Ruby. Fu lei il 25 maggio 1992 a puntare l'indice anche contro i colleghi del tribunale ambrosiano in un'accorata e vibrante commemorazione del suo collega ed amico Giovanni Falcone, appena ucciso dalla mafia nell'attentato di Capaci. «L'ultima ingiustizia - gridò testualmente la Boccassini - Giovanni la subì dai giudici di Milano. La rogatoria per lo scandalo delle tangenti gliel'hanno mandata senza gli allegati. Mi telefonò e mi disse: che amarezza, non si fidano del direttore degli affari penali» al Ministero della Giustizia. A Milano, quindi, parola della Boccassini, il povero Giovanni Falcone, ormai a due passi dal suo appuntamento eroico con la morte, non era considerato dai suoi colleghi tanto affidabile da ricevere incartamenti completi sulle inchieste riguardanti il finanziamento illegale della politica e la corruzione che spesso l'accompagnava. Erano inchieste particolari pure quelle. Delle quali per sua fortuna il povero Falcone non fece in tempo a vedere tutti gli sviluppi e sbocchi. Ne avrebbe troppo sofferto per la concezione alta ch'egli aveva della Giustizia e della sua professione, anzi missione, di magistrato.

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