La politica è uscita di scena
Tra qualche anno ci si renderà conto che questa legislatura ha segnato davvero, nel bene e nel male, uno spartiacque nella storia dell’Italia repubblicana. Ho detto: nel bene e nel male, ma, ad onor del vero, avrei dovuto dire: più nel male che nel bene. Questa legislatura, infatti, ha visto un progressivo svilimento delle istituzioni, sempre più coinvolte nella lotta politica, e, ancora, una accentuata alterazione dell’equilibrio dei poteri. In altre parole, essa ha certificato, per un verso, l’inadeguatezza rispetto alle nuove sfide della politica e della società post-ideologica di una carta costituzionale obsoleta e costruita sul compromesso fra ideologie, e, per altro verso, ha consentito che si affermasse una lotta senza quartiere fra i poteri dello Stato per consolidare o conquistare posizioni di arroccamento corporativo. La colpa di questo processo degenerativo - un processo che affonda le sue radici lontano nel tempo - è di tutti, del governo come dell’opposizione. Quando il governo sposta il centro delle decisioni politiche dalle sedi istituzionali alle residenze private del premier, altera il normale meccanismo della dialettica politica ingenerando una perniciosa confusione tra la sfera del pubblico e la sfera del privato. Quando, d’altro canto, le opposizioni non sono in grado di contrapporre a questa deriva niente di meglio che un patetico appello al cosiddetto «patriottismo costituzionale» e, ottenebrate da un odio per il premier che ha il sapore di «revanche» per la perdita di posizioni o di rendite di posizione, non fanno altro che confermare la loro incapacità cronica di proporre soluzioni di lungo respiro e la loro mancanza di senso dello Stato e di senso delle istituzioni. Siamo, insomma, alla eclissi o, se si preferisce, alla abdicazione della politica. A una svolta pericolosa, al di là della quale si profila il caos. I sintomi sono evidenti e sotto gli occhi di tutti. La «crisi della politica», come ha detto Berlusconi, può diventare «crisi della democrazia». L’osservazione è giusta, non già nel senso di una possibile e improbabile deriva autoritaria quanto piuttosto nel senso di una irrecuperabile confusione dei poteri. Il caso della magistratura è emblematico. Il problema non è più soltanto quello del protagonismo, più o meno velleitario, di qualche pubblico ministero ma è ormai quello, al fondo eversivo, di una magistratura, come corporazione, sempre più pronta a invadere la sfera di discrezionalità e responsabilità del legislatore e a realizzare quello che un grande costituzionalista francese, Edouard Lambert, già all’inizio degli anni venti definì «il governo dei giudici». Questa prevaricazione, fra l’altro, sta realizzandosi attraverso gli interventi e le pressioni del Consiglio Superiore della Magistratura con valutazioni preventive su leggi non ancora approvate, ma anche attraverso sentenze squisitamente politiche emesse dalla Corte Costituzionale che, di fatto, abolisce o snatura o riscrive leggi già approvate. In tal modo, com’è evidente, si sviluppa un fenomeno di esercizio surrettizio dell’attività legislativa che contrasta con il sacrosanto principio della separazione dei poteri. Lo scontro sulla giustizia - che questa settimana raggiungerà il suo clou non solo nelle aule parlamentari per la discussione sul provvedimento legislativo sulla cosiddetta prescrizione breve ma anche nelle aule giudiziarie con la ripresa o l’avvio dei processi contro Berlusconi - è uno scontro che, alla fin fine, al di là delle vicende giudiziarie del premier, tocca la questione della salvaguardia della democrazia liberale e rappresentativa in Italia. Riguarda, insomma, il problema delicatissimo della tutela degli equilibri fra i poteri dello Stato. L’abdicazione della politica ha provocato altri squilibri fra i poteri dello Stato. Per esempio, ha accresciuto, di fatto, il ruolo del Presidente della Repubblica che, ormai, non svolge più le funzioni classiche e puramente «notarili» di custode della Costituzione (come avevano fatto Enrico De Nicola e Luigi Einaudi) ma interviene sempre più come attore e protagonista in alcuni momenti delicati con azioni di monitoraggio preventivo dell’attività legislativa e con iniziative che talora travalicano la lettera delle competenze presidenziali. Non è detto che tutto ciò sia un male, soprattutto quando la figura del Capo dello Stato finisce per essere percepita come quella di un leader morale che si adopera per evitare la corsa verso la catastrofe. È, anzi, una indicazione precisa che va nella direzione di una auspicabile revisione della Costituzione in senso presidenzialista. Tuttavia, rimane un fatto. Questo attivismo del Presidente della Repubblica - realizzato attraverso i passi felpati e le voci ovattate degli ambienti quirinalizi che accreditano, salvo poi smentirli, presunti malumori del Capo dello Stato di fronte a propositi del Governo, come quello il ricorso al voto di fiducia sulla questione della giustizia o ventilano, come minaccia che eviterebbe l’approvazione delle riforme, lo scioglimento delle Camere anche in assenza di un voto di sfiducia - è la dimostrazione plateale della crisi profonda del sistema politico italiano. Una crisi, ribadiamolo, dovuta all’uscita di scena della politica.