Quante lacrime ci costa questa Italia
Toccanti e veritiere le parole con cui ieri, a New York, il presidente Napolitano, accingendosi a visitare una mostra del made in Italy dedicata ai 150 anni dell'Unità Nazionale, alla presenza di una vasta rappresentanza della comunità italoamericana, ha voluto ricordare in che cosa l'emigrazione italiana di cento anni fa verso l'America e quella nordafricana di oggi verso l'Italia, sono diverse e in che cosa sono simili. La diversità risiede ovviamente nel fatto che mentre la prima fece dell'Italia un paese di emigranti, la seconda ne ha fatto un paese di immigrati. La somiglianza, altrettanto ovviamente, risiede nel movente, che in entrambi i casi è «la ricerca talvolta disperata di lavoro e di una vita decente». Al che converrebbe aggiungere, però, che la principale delle cause che generarono il fenomeno della nostra emigrazione di massa verso il Nuovo Mondo fu proprio quell'evento – l'Unità d'Italia – che il nostro presidente è andato a celebrare anche negli States. Si può comunque agevolmente supporre che alle anime dei molti milioni di italiani, soprattutto meridionali, che fin dalla nascita dell'Italia Una salutarono l'evento imbarcandosi per le Americhe, non sembrerà proprio giusto che la loro straziante epopea, anche in questa circostanza, venga onorata omettendo la più timorosa allusione alla sua vera causa. Molte sono del resto le gaffes che l'Italia sta facendo in questo campo proprio nell'ora del suo genetliaco. E la più grave è stata commessa da questo governo quando due suoi peraltro eccellenti ministri, Franco Frattini e Sandro Bondi, allora ancora alla guida del Mibac, decisero insieme che il Museo Nazionale dell'emigrazione italiana dovesse essere ubicato nella Gipsoteca del Vittoriano a Roma. Ossia proprio nel ventre della pomposa fabbrica di marmo che più sfacciatamente di ogni altro italico monumento simboleggia quella patria dalla quale i nostri emigranti fuggirono in massa disperati. In che modo rimediare a questi insulti? La parola agli esperti del ramo Toppe & Rattoppi. Ma il più semplice e istruttivo, a mio sommesso pare, sarebbe l'introduzione di una minuscola correzione nella celebre canzone che il grande Libero Bovio dedicò appunto al dramma della nostra emigrazione. La canzone (che fu scritta nel 1925) è, naturalmente, «Làcreme napulitane». La cui strofa principale, com'è noto, suona così: «E nce ne costa làcreme st'Amèrica | a nuje Napulitane! | Pe nuje ca ce chiagnimmo 'o cielo 'e Napule | comm'è amaro stu ppane!». Ala quale seguono, poi, questi altri patetici versi: «Mia cara madre, | che so', che so' 'e denare? | Pe' chi se chiagne 'a Patria, nun só' niente! | Mo tengo quacche dòllaro, e mme pare | ca nun so' stato maje tanto pezzente!» Sono versi, nel loro popolaresco candore, perfettamente adeguati a quell'atroce esperienza che fu spesso l'avventura di quelle armate di sventurati che in meno di mezzo secolo, fra il 1870 e il 1920, emigrarono in massa verso le Americhe (il fenomeno travolse circa venti milioni di italiani). È tuttavia evidente che la vera, principale responsabile di quel dramma non fu affatto l'America – che invece offrì a quei fuggiaschi una vita più accettabile di quella che si erano lasciati alle spalle –, bensì proprio la loro patria, che fin dai primi giorni della sua esistenza, non sapendo offrir loro altro che miseria e disperazione, li costrinse a fuggire verso un'altra terra. Quella leggendaria canzone sarebbe dunque riuscita più vera se il suo verso più famoso – «E nce ne costa làcreme st'Amèrica» – avesse detto, invece, «E nce ne costa làcreme st'Italia». Quale nostro menestrello oserà apportarvi questo piccolo ritocco?