Il triangolo del sindacato delle toghe

La maggioranza saprà probabilmente confermare nell’aula della Camera nei prossimi giorni l’iniziativa assunta in commissione per allargare le maglie troppo strette della responsabilità civile dei magistrati. Il proposito è di aggiungere «la manifesta violazione della legge» al «dolo e colpa grave» oggi richiesti per tentare azioni di risarcimento dopo avere subìto errori giudiziari. Alta e forte, come si sa, è la protesta per presunta «intimidazione» levatasi al completo dal triangolo al vertice del sindacato delle toghe, composto dal presidente, vice presidente e segretario. Poiché il presidente e il segretario dell'Associazione Nazionale Magistrati, Luca Palamara e Giuseppe Cascini, sono entrambi pubblici ministeri, si potrebbe ingenuamente pensare che almeno il vice presidente, Antonello Ardituro, sia un giudice. E invece no, Anche Ardituro è un pubblico ministero. Nemmeno lui è dunque un magistrato che emette sentenze: una di quelle toghe, peraltro più numerose delle altre, dalla cui cosiddetta terzietà il cittadino dovrebbe sentirsi più garantito. Pensate un po', degli 8.343 magistrati in servizio negli uffici giudiziari, almeno secondo i dati ricavabili sino a ieri consultando elettronicamente il Consiglio Superiore, ben 6.249 sono giudici e solo 2.094 pubblici ministeri. Ma sono solo questi ultimi a condurre stranamente le danze del sindacato, e ad esasperare sempre più di frequente lo scontro con la politica, sino all'insulto. L'insulto forse vi sembrerà un termine esagerato, ma l'accusa di intimidazione contenuta nell'ultimo documento associativo è di una gravità inaudita. Essa fa il paio con il recente intervento del segretario Cascini contro «la legittimità storica, culturale, politica e morale» dell'attuale maggioranza di governo. Ora al vertice sindacale delle toghe capita, volente o nolente, di insultare anche i magistrati che non svolgono funzioni requirenti, cioè d'accusa. Evidentemente i pubblici ministeri alla guida dell'Associazione non si fidano neppure di loro, in qualità di giudici, unici abilitati ad emettere sentenze, quando scambiano per intimidazione la sola possibilità che una toga sia chiamata a rispondere in tribunale dei danni procurati per «manifesta violazione della legge». Ma se si mostra di non avere fiducia nei verdetti dei giudici, e quindi nel sistema generale della giustizia, non se ne può certamente infondere nei cittadini. Lo ha giustamente fatto notare l'altra mattina il direttore del Tempo Mario Sechi all'amico Peppino Caldarola nella trasmissione Omnibus, de la 7, contestandone le «preoccupazioni» da lui appena espresse per un più agevole ricorso alla responsabilità civile dei magistrati. Che è una cosa- non dimentichiamolo- voluta a larghissima maggioranza dai cittadini nel 1987 con un referendum sostanzialmente tradito l'anno dopo, fra le proteste del solo, solito e benemerito Marco Pannella, da una legge ordinaria reclamata dalla casta giudiziaria. È venuta l'ora, eccome, di cambiarla. Come è venuta l'ora di separare le carriere, e non solo le funzioni, dei pubblici ministeri e della stragrande ma silenziosa, e sindacalmente silenziata, maggioranza dei giudici. Dai quali tuttavia è lecito attendersi che si decidano a distinguersi bene, già prima che la separazione delle carriere, del sindacato e del Consiglio Superiore della Magistratura riescano a superare le forche caudine di una riforma costituzionale e forse anche di una verifica referendaria.