Fini scopre la bellezza dell’inciucio
Un Fini pacato. Rasserenato. Che torna a dirsi di destra («Il mio schieramento politico culturale») sebbene prepari il terreno a un'intesa con il Pd. Perché vede sempre più chiaro davanti a sè un pezzo di strada che dovrà percorrere con la sinistra. Non a sinistra. Ma con la sinistra, questo sì. Un Fini che non compare più in pubblico con Elisabetta Tulliani ma che è seguito dallo staff di Montecitorio al completo. Sarà stata anche la versione salottiera predisposta da Enrico Cisnetto, sarà anche perché il confronto era con Giuliano Amato (difficile trovare una divisione tra loro due), sarà perché la cornice è quella dell'Ara Pacis, sarà per tutto questo assieme comunque il presidente della Camera dismette i panni dell'antiberlusconismo, evita anche accenti polemici. Presenta il suo nuovo libro, «L'Italia che vorrei» (in realtà una raccolta di discorsi), e cerca i punti di contatto. «Io vorrei - premette - un'Italia con la democrazia dell'alternanza e questa c'è ma purtroppo oggi prevalgono esclusivamente le ragioni dello scontro. Questo comporta una degenerazione che è alla base della stanchezza degli italiani nei confronti di una politica in perenne lotta con sè stessa». Fatta questa premessa entra nel merito. E spiega: «Se non andiamo incontro ad una stagione delle riforme il nostro è un sistema che rischia di non stare più in piedi». Quindi, un po' a sorpresa, rivela: «Inciucio, è la parola che ha fatto piú male alla politica italiana. In Italia - spiega Fini - non esiste un solo punto su cui interagire e costruire qualcosa se non con la volgarità dell'inciucio. Io un Paese come l'Italia non lo conosco». Parole che servono a introdurre un altro concetto: «Per usare una metafora sportiva dico: dobbiamo dire basta a questa logica tribale del derby. È come se ci trovassimo di fronte agli ultrà di Roma-Lazio che ormai non guardano più la partita e si scontrano a prescindere da quello che accade in campo... Tra un po' la politica finirà a trovarsi in questa situazione». In platea ci sono anche Domenico Fisichella e Stefano Passigli ad ascoltarlo. Cisnetto ricorda a Fini che tra poco, il 22 aprile, sarà l'anniversario della celebre riunione della direzione nazionale del Pdl passata alla storia per il «Che fai? Mi cacci?» rivolto a Berlusconi. E dunque gli chiede cosa sarebbe successo se non ci fosse stato quel giorno. Ma Gianfranco non coglie la provocazione: «Con i se e con i ma non si costruisce nulla». Piuttosto gli piace battere su un punto per lui fondamentale: «In Italia dobbiamo allargare le prospettive e cercare punti di confronto, non necessariamente antagonisti, per l'interesse generale». Non sono frasi astratte, bensì il principale inquilino di Montecitorio le cala nell'attualità a cominciare dalla riforma della Giustizia: «Sulla separazione delle carriere o delle funzioni ci può essere una differenza, ma pensare che l'ordinamento giudiziario possa essere organizzato in modo diverso rispetto al principio dell'autonomia sancito dalla Costituzione è paradossale che sia divisivo». Torna a sostenere che «la Padania è una sciocchezza» e alla fine si concede anche una sorta di «assoluzione» del Cavaliere: «L'irruzione della leadership carismatica e populista è una questione che si sarebbe posta comunque sulla scena politica: se non era Berlusconi era un altro».