Quei suggerimenti per addolcire il 41 bis
Giovanni Conso, allora ministro della Giustizia, sostiene di aver deciso da solo la revoca del carcere duro, per i mafiosi, e sostiene di averlo fatto per fermare le stragi. Non ricorda più, però, come sia giunto a questa conclusione. Carlo Azelio Ciampi, allora presidente del Consiglio, ricorda il contrario: il mio governo non è mai andato incontro alle richieste dei mafiosi. Oscar Luigi Scalfaro, allora Presidente della Repubblica, ha ricordi vaghi, ma suggerisce a Conso che se proprio fu lui a revocare il carcere duro deve averlo fatto per ragioni umanitarie. Bene, vediamo se riusciamo a rinfrescare tanto offuscate memorie, raccontando agli italiani quel che nessuno ha mai detto loro. Il Tg5 di Clemente Mimun ieri l'ha anticipato. Abbiamo in mano il documento del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria), datato 26 giugno 1993, nel quale si suggerisce di alleggerire il trattamento riservato ai mafiosi. Attenzione, perché le date sono importanti: Giovanni Falcone era stato ammazzato il 23 maggio del 1992; Paolo Borsellino subito dopo, il 19 luglio; il 14 maggio del 1993 c'era stato il fallito attentato di via Fauro, con una bomba esplosa in un quartiere residenziale di Roma; il 27 maggio una bomba ai Georgofili, a Firenze, miete 5 vittime. Nicola Mancino, allora ministro degli Interni, ha poi raccontato che quando arrivò a Firenze, quel giorno, gli furono chiare due cose: a) la bomba era mafiosa; b) la ragione era il carcere duro. A fine maggio, dunque, secondo un ministro del governo Ciampi, la mafia mette le bombe per ottenerne la revoca. Il documento citato è di fine giugno, ma il ministro Conso temporeggia. Il 27 luglio una bomba in via Palestro, Milano, costa la vita ad altre cinque persone. Il 28 luglio scoppiano due bombe: una a San Giovanni in Laterano, l'altra a San Giorgio al Velabro, Roma. Nessuna vittima. Ad ottobre ci sarebbe dovuto essere un attentato allo Stadio Olimpico, ma i pentiti raccontano che non funzionò l'innesco. A novembre Giovanni Conso decide di dar seguito al suggerimento del Dap e non rinnovare il regime di 41 bis, dell'ordinamento penitenziario, venendo incontro ad una richiesta che, poi si saprà, era contenuta nel «papello» di Totò Riina. Il documento del Dap fa esplicito riferimento alla necessità di non inasprire il clima e ritiene che quella decisione sarebbe «sicuramente un segnale positivo di distensione». Il ragionamento, però, è relativo al sovraffollamento carcerario e alla scarsezza del personale di sorveglianza. Il che non è del tutto logico, perché la minore restrittività e afflizione del carcere, in capo ai mafiosi, non affronta né risolve nessuno di questi due problemi. Comunque, rimane un mistero: come fa Conso a sapere che con quella decisione si sarebbero fermate le stragi? Una cosa la sappiamo noi: dopo quel provvedimento le bombe mafiose tacquero. Conso aveva ragione. Ma è proprio sicuro che abbia deciso del tutto in solitudine? Altri documenti ci aiutano a capire. L'appunto del Dap, indirizzato al ministro, è firmato dal suo direttore generale: Alberto Capriotti. Il quale non si trova in quel posto da molto, ma è arrivato subito dopo l'allontanamento del predecessore, Nicolò Amato. Capriotti è stato nominato il 14 giugno, ci ha messo dodici giorni per giungere a quelle conclusioni, il che suggerisce l'ipotesi che gli fossero chiare già prima. È bene ricordare che quando s'è cominciato a parlare di trattative fra lo Stato e la mafia ed a supporre che un qualche ruolo potrebbe essere stato svolto dal Dap, se non altro, appunto, nel segnalare l'opportunità di revocare il regime di 41 bis, Amato ha subito precisato che, di sicuro, non era stato lui. Infatti, fu il successore. Ed è qui che si apre uno scenario interessante. Nicolò Amato stava sul gozzo a Scalfaro, appena eletto Presidente della Repubblica. Quest'ultimo convoca, al Quirinale, monsignor Cesare Curioni, suo carissimo amico e cappellano prima a San Vittore e poi a Regina Coeli. Conoscitore del mondo carcerario e dei carcerati, quindi. Lo intrattiene (come apprendiamo da una deposizione di un altro prelato, Fabio Fabbri, resa al pubblico ministero Gabriele Chelazzi) su alcune questioni logistiche e rimprovera il religioso per non averlo avvertito del suo trasferimento, a cura dell'amministrazione della giustizia, in un luogo che sarebbe disagiato, ovvero il museo criminologico. Non lo devono fare, afferma Scalfaro, non possono toccarvi senza avvertirmi. Poi lo convoca nuovamente e qui, se è vero ciò che racconta Fabbri, avviene quel che qualcuno deve spiegare, facendosi tornare la memoria: caro Curioni, gli dice Scalfaro, si metta a disposizione del ministro Conso e trovate un nuovo direttore del Dap. E aggiunge: ho qui nel cassetto i nomi dei candidati, ma non vanno bene. Seguono spiacevolezze varie, all'indirizzo di Nicolò Amato. Il giorno dopo Curioni, con Fabbri sempre al seguito, si trova nello studio di Conso, il quale si mette le mani nei capelli e si mostra angustiato perché, dice, Amato ha fatto bene il suo mestiere, sicché gli duole mandarlo via. Ma, insomma, si deve. Chi, al suo posto? I due prelati fanno il nome di Alberto Capriotti, poi firmatario del documento che propone un miglior trattamento per i mafiosi, e Conso si fionda sull'annuario, ove si trovano i profili di tutti i magistrati: si può, molto bene, Capriotti ha ancora due anni di servizio. Preso. Dunque: Scalfaro chiede a un religioso di trovare un direttore generale dell'amministrazione penitenziaria (dello Stato italiano, non del Vaticano), il ministro lo riceve il giorno appresso e accoglie la candidatura proposta. Lo stesso ministro che afferma di avere deciso da solo, nel chiuso di una stanza, di far quel che Capriotti gli aveva suggerito quattro mesi prima. La stessa cosa che si suppone qualcuno avrebbe fatto per far contento Riina. La stessa che si vuol rimproverare ai dirigenti di un partito che non era ancora nato. La stessa per la quale Vito Ciancimino avrebbe continuato a trattare, non essendosi accorto d'averla già ottenuta. La stessa per la quale la mafia metteva bombe che scoppiavano nel vuoto, o mietevano poche vittime o facevano cilecca. Bombe che Ciampi chiama «stragi», negando che il suo governo abbia mai fatto quel che è provato abbia fatto. Povero Ciampi, speriamo qualcuno gli riassuma gli atti del suo governo. Povero Conso, l'autonomo che prende ordini da due preti, l'uomo che s'immaginava chiuso in un bunker, e, invece, era inginocchiato in sacrestia. E Scalfaro, l'uomo che divenne Presidente della Repubblica a seguito della morte di Falcone? L'uomo che suggerisce a Conso di dire che tolse quei poveri mafiosi dall'afflizione perché mosso da compassione e umana tenerezza? Sono convinto che Conso sia uomo retto, sebbene non esattamente coraggioso e non propriamente uno statista. Suppongo che Ciampi non possa aver detto una simile bugia consapevole che fosse tale, ritengo che, effettivamente, certe cose non gliele abbiano raccontate. Il che, però, dimostrerebbe che il governo era eterodiretto. Che altri governavano al suo posto. Ma allo Scalfaro ingenuo o distratto non credo. No, non è il tipo. Stava giocando una partita, l'ha giocata fino in fondo. Forse varrebbe la pena, con rispetto, di chiedergliene conto. Ho l'impressione che a qualcuno debba tornare la memoria. Che si debba ancora scrivere la storia di quel biennio oscuro e terrificante. Noi non ci rinunciamo, alla memoria. Sappiamo che un essere umano intento a negare il proprio passato, a nasconderlo, corromperlo e capovolgerlo, è un disonesto, o un pazzo. Sappiamo che un Paese spinto su quella stessa strada è condannato a vivere il presente come eterno regolamento dei conti del passato, così rinunciando al futuro. Questa, per tanti aspetti, è l'Italia nella quale viviamo, da troppo tempo. Un'Italia in cui s'è logorata la classe dirigente, s'è adulterata la coscienza collettiva, s'è premiato il tartufismo e il servo encomio, cui segue sempre il codardo oltraggio. Usciamo da quest'incubo, ma per farlo occorre recuperare la memoria.