Combattono da settimane
Sfidanoil Colonnello e i suoi uomini. Rischiano la pelle. Lottano per il loro Paese, ma «per favore non chiamateli ribelli». Farid Adly, giornalista libico in Italia da molti anni, fa parte del «Movimento per una Libia Repubblica democratica», il coordinamento italiano del consiglio nazionale transitorio libico (Cntl). Quelli che noi chiamiamo «ribelli», per lui rappresentano «la resistenza». «Sono avvocati, ingegneri, studenti. Loro non si sentono ribelli. Non accettano questa definizione. Stanno resistendo a un tiranno, combattono per ottenere quello per cui avete combattuto voi italiani. Vogliono una costituzione e libere elezioni. Vogliono che l'Italia li riconosca come unici interlocutori, che smetta di far riferimento ai diplomatici del Raìs», spiega. Se immaginiamo tribù in lotta tra loro, beduini che combattono nel deserto, nomadi che scappano impauriti sui loro cammelli ci sbagliamo di grosso, insomma. «Sono retaggi di una letteratura coloniale. In Libia non ci sono tribù. Metà della popolazione libica vive tra Tripoli e Bengasi: sono metropoli». A resistere a Gheddafi sono i militari che lo hanno abbandonato e i tanti giovani che stanno imparando a fare la guerra per liberare il loro paese. Hanno le armi che prima erano dell'esercito e stanno cercando in tutti i modi di difendere le loro città. «Molti di loro sono laureati, hanno studiato in Libia o nelle università straniere. Usano il computer tutti i giorni, per fare mille cose diverse», racconta Farid. Se non beduini, a volte ce li immaginiamo terroristi, come avessero tutti la lunga barba di Osama Bin Laden e nutrissero il suo stesso odio per l'Occidente. La comunità internazionale ci ha messo troppo a intervenire. «Non sono islamisti, né jihadisti. Non sono neppure secessionisti, non vogliono creare uno stato fondamentalista. Vogliono una democrazia pluripartitica», spiega sicuro il giornalista libico. E, in effetti, basta andare a guardare i curricula dei componenti del Consiglio nazionale libico, per capire chi sono in realtà «i ribelli». A guidare chi combatte, racconta Adly, «è il clou della cultura libica, è gente che conosce la storia del mondo». L'organo si compone di trentuno membri, provenienti da ogni città o villaggio liberato. Ne fanno parte varie forze anti-Gheddafi e alcuni ex membri del Comitato generale Popolare di Libia e dell'esercito libico passati a far parte dell'opposizione al regime. L'ex ministro di giustizia di Muammar Gheddafi, Mustafa Mohammed Abdul Al Jeleil, è il Segretario generale. «È un magistrato, non un capotribù», rincara la dose Adly. L'ex Guardasigilli libico si è laureato al dipartimento «Shari'a e Legge» della facoltà di lingua araba e studi islamici dell'Università della Libia, ed è stato al fianco del Colonnello fino al 21 febbraio scorso, quando ha dato le dimissioni dal governo di Mohamed Abu Al-Quasim al-Zwai ed è passato alle forze anti-Gheddafi. Il portavoce del Consiglio nazionale libico, Abdel Hafiz Al Ghogha, è invece il presidente dell'ordine degli avvocati di Tripoli, o lameno lo era, mentre Ali Al Issawi (nato a Bengasi nel 1966 e laureatosi a Bucarest, in Romania) era ministro dell'Economia e degli Investimenti. Tra i «ribelli» c'è poi Mahmood Jibril, nato in Libia nel 1952, laureatosi in Scienze politiche ed economiche all'università del Cairo nel 1975 e specializzatosi con un master in scienze politiche all'Università di Pittsbourgh, in Pennsylvania, nel 1980. È stato lui, la settimana scorsa, ad incontrare Nicolas Sarkozy prima e Hillary Clinton poi per convincerli della necessità dell'intervento della comunità internazionale. «La Resistenza non poteva far fronte alla potenza delle forze di sicurezza del raìs - racconta Adly - Sono armati fino ai denti. Gheddafi ha avuto il tempo di riorganizzarsi. Sono arrivati i mercenari, i piloti stranieri». Due di essi sarebbero stati catturati in questi giorni dalle forze guidate dal consiglio di transizione. «Si tratta di un croato e un siriano. Adesso loro sono prigionieri a Bengasi, ma ce ne sono molti altri. La comunità internazionale doveva tener conto di queste cose, non si può mandare la gente al massacro», lamenta il giornalista libico. Adesso le forze fedeli a Gheddafi si trovano ad una cinquantina di chilometri da Bengasi, sede del Cntl. Hanno tentato per ben due volte di riconquistare la città, ma dopo i bombardamenti sono stati costretti a tornare a Sud. «L'operazione della comunità internazionale - lamenta Farid - ha avuto un limite. Dovevano intervenire prima, per proteggere la popolazione civile. Non è compito loro uccidere Gheddafi, o mandarlo via. A questo ci penserà il popolo libico». C'è poi la questione energetica. I «ribelli» non sono certo stupidi. Farid ha le idee chiare: «I libici sono consapevoli che la missione non ha solo un carattere umanitario, che sono petrolio e gas a muovere la caolizione. Ma manterrano buoni rapporti con chi darà loro una mano».