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E in Aula il Senatùr detta la linea

Bossi e Berlusconi

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Bossi a destra, Tremonti a sinistra, Berlusconi in mezzo Sono rimasti così, immobili. Ogni tanto parlottavano. Ci sono stati momenti in cui almeno uno di loro si sarebbe voluto girare, guardare in alto i banchi della presidenza dove Schifani, ma soprattutto Fini e Napolitano, tiravano alle loro spalle parole come sassate. Solo in un piccolo istante il ministro dell'Economia non ha resistito, s'è voltato e ha lanciato un'occhiata verso i banchi dei tre presidenti dietro e sopra di loro. Un'occhiata che sembrava una lama affilata. È stato Bossi, anche stavolta, a dettare la linea. Ha fatto finta di nulla, ha tirato dritto. Anzi, a momenti ha anche battuto le mani. Cioé, battere le mani è un po' troppo. Ha battuto i pugni, il pugno, il pugno sinistro sul banco come fosse un applauso. E lo ha fatto subito. Non appena Napolitano ha citato uno dei padri dell'unificazione: «Eppure, per Mazzini era indubitabile che una nazione italiana esistesse, e che non vi fossero "cinque, quattro, tre Italie" ma "una Italia"». Bossi s'è messo a battere quella mano e Berlusconi e Tremonti l'hanno seguito subito. Insomma, era chiaro il messaggio: oggi si incassa, lasciamo loro la festa delle parole; noi pensiamo ai fatti, alle cose concrete. In aula si presentano i tre ministri leghisti, solo Calderoli sfoggia la solita cravatta verde chiaro, gli altri scelgono tonalità più sobrie. Il gruppo parlamentare in larga parte diserta, presenti solo in cinque. E Berlusconi? Capisce la situazione e va oltre. Si spella le mani quando il presidente della Repubblica cita: «È giusto che oggi si torni ad onorarne la memoria, rievocando episodi e figure come stiamo facendo a partire, nel maggio scorso, dall'anniversario della Spedizione dei Mille, fino all'omaggio, questa mattina, ai luoghi e ai prodigiosi protagonisti della gloriosa Repubblica romana del 1849». Altro passaggio che i tre mostrano di apprezzare è quello sulle parole d'ordine dell'Italia: «Nella nostra storia e nella nostra visione, la parola unità si sposa con altre: pluralità, diversità, solidarietà, sussidiarietà».   Sicuramente se avesse aggiunto libertà, il premier avrebbe condiviso. Finita la cerimonia si intrattiene con qualche ministro, saluta Mara Carfagna. Poi fila via, va nella stanza che è riservata al presidente del Consiglio e si fa portare un bicchiere d'acqua e uno di Coca cola. Resta dispiaciuto per i fischi, pensa a qualcosa di organizzato (anche se poi in pubblico dirà il contrario: «È stata una giornata magnifica ed io ne sono contento»). Ragiona Giorgia Meloni, ministro della Gioventù, passeggiando in Transatlantico: «Ci sono mille occasioni per dividersi ma fischiare Berlusconi alla festa dell'unità d'Italia mi è sembrato davvero fuori luogo. Almeno oggi era un giorno per restare uniti». Nel Pdl nessuno sembra entusiasta della celebrazione. A dirla tutta, il principale partito sembra quasi estraneo alle manifestazioni, come se fossero diventate di parte. Lucio Barani si presenta in Aula con il garofano rosso socialista che immancabilmente orna la sua giacca blu, Fiorella Ceccacci riscopre addirittura la spilla di Forza Italia. Qualcuno tira fuori una coccarda, Antonio Martino e Giuseppe Moles stendono sul loro banco la bandiera tricolore. Andando via Carlo Vizzini, presidente della commissione Affari Istituzionali del Senato, avverte: «Ma è proprio normale che in una cerimonia così non abbiamo sentito parlare il presidente del Consiglio?».  

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