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Calma samurai

Lastre di metallo per proteggersi dalla pioggia radioattiva

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Recita un proverbio giapponese: il samurai deve sembrare sempre molto soddisfatto anche se è molto affamato. Un motto che la dice lunga sull'atteggiamento atarassico, di apparente granitica impassibilità mostrato dal popolo nipponico di fronte alla tragedia del terremoto e dello tsunami. Immagini che le televisioni hanno diffuso in tutto il pianeta. Un comportamento che colpisce gli occidentali e, in particolar modo, noi italiani. I figli del Sol Levante non urlano, non si disperano, non protestano. Davanti al dramma, alla morte dei propri cari e all'incombente pericolo nucleare si rifugiano nell'ordine e si affidano alla solidarietà. Hanno fiducia nelle autorità anche se l'allarme atomico è stato, all'inizio, sottovalutato. Si preparano ancora una volta a ricostruire quello che la natura o l'uomo hanno distrutto. E a ricominciare da capo, seppellendo le emozioni nel profondo dell'anima e nascondendo il dolore dietro sguardi impenetrabili. «Il samurai non deve far vedere quello che prova, perché, se mostra debolezza, i nemici possono approfittarne - spiega Akio Fujiwara, corrispondente romano del Mainichi Shimbun - È un fattore culturale. Le nostre radici storiche ci portano a essere calmi, a non agitarci e a cercare, invece, di affrontare con lucidità i problemi. Siamo abituati ai cataclismi. Nel nostro recente passato abbiamo avuto altri terremoti devastanti, come quello del 1923, che fece migliaia di vittime nella regione del Kanto». Erano le 11.58 del primo settembre e un sisma di magnitudo 7,9 con epicentro sotto la baia di Sagami colpì il Paese. La terra tremò per un tempo interminabile, stimato fra i quattro e i dieci minuti. Il terremoto semidistrusse Tokyo, il porto di Yokohama, e le prefetture circostanti di Chiba, Kanagawa, e Shizuoka. I morti furono 140.000, i dispersi oltre 35.000. «Anche i danni della guerra furono enormi - continua Akio - Nel 1945, prima di Hiroshima e Nagasaki, le bombe americane rasero praticamente al suolo la nostra capitale e altre grandi città. Inoltre, ogni venti-trenta anni abbiamo subìto un disastro naturale, come terremoti o tifoni. Insomma, siamo abituati a gestire questi eventi, comportandoci con calma e determinazione: sappiamo che è l'unica maniera per non peggiorare le cose e consentire il lento e progressivo ritorno alla normalità. È anche vero, tuttavia, che si sono molti luoghi colpiti che non possono essere raggiunti dai soccorritori - conclude Fujiwara - Mancano cibo e acqua e per questo in tali aree c'è un po' di frustrazione. La gente, però, continua ad aspettare senza fare drammi». I gaijin (stranieri in giapponese) occidentali sono particolarmente sorpresi da questa imperturbabilità, questa capacità di controllare le passioni che, però, se non esplodono, implodono. «Posso dire di aver conosciuto il popolo giapponese più negli ultimi tre giorni che negli ultimi tre anni», spiega Francois Rollier, italiano impiegato presso una multinazionale tedesca e sposato con una nipponica. «Mia moglie per prima mi ha detto di non voler lasciare ufficio e colleghi in un momento di difficoltà. Io ho suggerito a mia cognata, che ha un figlio piccolo, di andarsene da Tokio e lei mi ha dato una risposta disarmante: "Perché? Per quale ragione?", m'ha detto. E a questo punto - prosegue Rollier - ho cominciato a pormi la stessa domanda. Lunedì sono andato al lavoro come al solito anche se eravamo rimasti solo in due stranieri. Gli altri si erano già messi al sicuro. Mi era stato proposto di lavorare a Osaka ma ho deciso di restare nella capitale e i colleghi giapponesi, quando mi hanno visto, m'hanno accolto molto bene. Erano felici e stupiti di vedermi. Allora ho capito che c'è qualcosa di rassicurante nella quotidianità, nell'agire come sempre. Soprattutto se ciò è condiviso con altri». L'italiano racconta anche che la maggior parte degli impiegati erano preoccupati dal rischio black-out, perché sarebbe stato un problema raggiungere il posto di lavoro. Ma meno dalle radiazioni. Osserva Rollier: «Dicevano: "Se ci sarà un problema, ce ne andremo via tutti". Per loro l'idea del "si salvi chi può" è semplicemente inconcepibile». Detto tutto questo, però, non bisogna pensare che i giapponesi siano incapaci di reazioni. Le comunicazioni lacunose sulla centrale nucleare di Fukushima Daiichi hanno attirato forti critiche sulle autorità. «L'ansia e la rabbia della gente a Fukushima - ha affermato ieri davanti alle telecamere della tv nazionale Nhk il governatore della prefettura Yuhei Sato - hanno raggiunto un punto bollente». Sato ha sottolineato le carenze organizzative, riferendo che i centri dove sono ospitati i cittadini fatti evacuare dalla zona della centrale non garantiscono sufficienti pasti caldi e le necessità di base. E, mentre si procede alla conta dei morti e dei dispersi, la polizia ha spiegato che più di 425mila persone si trovano in rifugi temporanei, spesso costrette a dormire sui pavimenti di scuole e palestre. Ma lo spirito del samurai continua a guidare i giapponesi. Si legge nell'antico manuale dei guerrieri nipponici, l'Hagakure di Yamamoto Tsunetomo reso celebre da un film di Jim Jarmusch: «Se ti imbatti in gravi difficoltà o in situazioni incresciose, devi spingerti ancora più avanti con audacia e rallegrartene, quasi dovessi superare una barriera. Come dice il motto: "Quando l'acqua sale, la barca si alza"».

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