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La riforma che cambia una cultura

tribunale

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Sulla giustizia si gioca finalmente a carte scoperte. Il progetto costituzionale di riforma varato ieri dal governo vale sia per ciò che propone, di «epocale» davvero, come dice il presidente del Consiglio, nel rapporto tra la magistratura e il cittadino, sia per il quadro politico che produce. E che prescinde dalla possibilità che ha il disegno di legge di compiere per intero il lungo percorso che l'attende, tra il Parlamento e forse anche le urne referendarie. Sulle quali il solito Antonio Di Pietro si è affrettato a scommettere per una clamorosa bocciatura immaginando che la magistratura abbia la stessa popolarità troppo frettolosamente guadagnatasi quando egli era sostituto procuratore a Milano, negli anni del rovesciamento giudiziario della cosiddetta prima Repubblica. Prima ancora che politica, è culturale la novità costituita dalla separazione non più delle funzioni, che già c'è, ma delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. Che, unite come sono oggi, sminuiscono i primi e sopravvalutano i secondi, riducendo spesso gli uni ad esecutori più o meno consapevoli degli impianti d'accusa degli altri. Finiremo anche noi, nei giornali, di fare una certa confusione chiamando giudici negli articoli e nei titoli, magari per comodità grafica e non solo per pigrizia mentale, anche i pubblici ministeri. Che sono invece un'altra cosa, per niente imparziali come pretendono di essere considerati, e come hanno interesse a rappresentarli coloro che ne usano a scopo politico le iniziative, peraltro dettate da una «obbligatorietà» tanto genericamente indicata adesso nella Costituzione quanto apparente. A carriere separate i giudici saranno più liberi di pronunciare le loro sentenze, senza il timore di smentire o lo scrupolo di dover salvaguardare ad ogni costo la credibilità dei «colleghi» dell'accusa, anche quando costoro hanno sconfinato sfacciatamente. Che tutto ciò non sia accaduto sinora, a beneficio soprattutto di alcune Procure cosiddette pilota, si può negare solo al prezzo di una enorme ingenuità, o ipocrisia. Anche la responsabilità civile dei magistrati, reclamata dagli elettori nel referendum del 1987 e tradita dalla classe politica, fra le proteste encomiabili del solo Marco Pannella, con la legge scritta l'anno dopo dalla casta giudiziaria, risulterà più praticabile e giusta in un sistema di carriere separate. La carriera unica infatti è stata ed è una specie di premessa ideale anche per un regime di sostanziale e omertosa impunità, negato ad ogni altra categoria di professionisti o pubblici dipendenti. Quanto è innovativo il contenuto della riforma proposta dal governo, comprensiva degli aspetti disciplinari sinora gestiti con taglio troppo domestico, tanto è vecchio e logoro il quadro politico che risulta dalle reazioni che essa ha provocato. Antica, e corporativa, è la forte tentazione del sindacato delle toghe di ricorrere allo sciopero, alla maniera dei metalmeccanici della Cgil. Che non a caso puntano proprio sul nostro sistema giudiziario, cioè sulle sue venature politiche, per contrastare con cervellotiche cause di lavoro l'ammodernamento del sistema produttivo imposto dalla globalizzazione del mercato. Antica e preconcetta è l'opposizione subito gridata e guidata da una sinistra che teme di non poter più disporre del sistema giudiziario come di una prolunga, o comunque di una risorsa, della propria azione politica. Fra i no gridati dal Pd, oltre che dal partito di Di Pietro, il più sorprendente ma anche significativo è stato quello di Luciano Violante. Più sorprendente perché contraddice una lunga serie di aperture fatte riconoscendo gli effetti perversi della linea giustizialista, cioè di adesione sistematica alle scelte delle Procure, da lui stesso guidata o impersonata nell'infausto biennio 1992-93, quando fu soffocata per mano giudiziaria un'intera area di governo. Più significativa perché se anche uno ormai fuori carriera come Violante, con la sua esperienza e autorevolezza, si chiude ad un confronto sulla riforma della giustizia finalmente predisposta dal governo e solleva una questione addirittura «morale», come ha fatto in una intervista a La Stampa pubblicata martedì scorso, vuol dire che non c'è proprio nulla di buono da attendersi dalla sua parte politica. La posizione che in quell'intervista ha assunto Violante, convinto testualmente che «non si può dialogare con un indagato di reati così infamanti» come la concussione e l'uso della prostituzione minorile contestati al presidente del Consiglio, non gli fa onore come giurista, visto che confonde un imputato per un condannato con sentenza definitiva. E lo riporta come politico ad una concezione barbarica dei rapporti con gli avversari, peraltro disapprovata più volte dagli elettori. È una concezione che fa paradossalmente di Violante e dei suoi compagni, a cominciare da Massimo D'Alema, che ieri gli è andato dietro con l'ennesima richiesta di dimissioni di Silvio Berlusconi, gli alleati più utili del Cavaliere. Resta ora da vedere se le disponibilità al confronto sulla riforma della giustizia emerse o annunciate dal cosiddetto Terzo polo si riveleranno vere, o non finiranno per essere smentite dai fatti, risucchiate anch'esse nel vortice dell'antiberlusconismo.

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