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Fini s'è svegliato tardi e male

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Gianfranco Fini

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Gianfranco Fini è tornato ad accorgersi che la sinistra italiana è «conservatrice» e «in quest'ultimo periodo non è stata in grado di mettere in campo un'idea» capace di appassionare gli italiani. Ben tornato a destra, potrebbero essere tentati di dirgli i suoi ex amici di Alleanza Nazionale, o del Movimento Sociale, se la sua scoperta non fosse alquanto tardiva e troppo sfacciatamente strumentale. Nel momento in cui il suo nuovo partito, Futuro e Libertà, perde il gruppo al Senato, si assottiglia a Montecitorio, viene coperto nel cosiddetto terzo polo dall'ombra più lunga del centrista Pier Ferdinando Casini e cala progressivamente nei sondaggi, il presidente della Camera avverte il bisogno disperato di riposizionarsi. E, pur continuando ad attaccare Silvio Berlusconi, sino a confonderlo, come ha fatto qualche giorno fa, per una controfigura di Umberto Bossi, da lui definito «il vero presidente del Consiglio», torna ad accorgersi dei limiti della sinistra. Ma se Fini pensa in questo modo di poter fermare la frana del suo movimento e di trattenere chi non si fida più di lui sul versante parlamentare ed elettorale del centrodestra, sbaglia di grosso. Il danno che si è procurato quando ha rinunciato a fare la cosiddetta terza gamba della maggioranza per passare con armi e bagagli all'opposizione sembra ormai irrimediabile. La sua credibilità a destra, dove appunto vorrebbe riaccreditarsi, è peraltro compromessa dal livore con il quale parla di quanti, disorientati per il suo troppo spregiudicato tatticismo, hanno ritenuto nelle scorse settimane di abbandonarlo o di prendere le distanze per abbandonarlo del tutto in un altro momento. A costoro il presidente della Camera ha infatti dato ieri del "quaquaraquà", scomodando il povero Leonardo Sciascia e il suo "Giorno della civetta" in un comiziaccio ai circoli omonimi del suo neonato e già consunto partito. Non una parola egli ha ritenuto di dovere spendere, rinunciando alla sua smisurata presunzione, per cercare di capire la delusione e il disagio di chi per andargli appresso nei mesi scorsi ha rinunciato, fra l'altro, a incarichi di governo e di partito. La fedeltà evidentemente per Fini è un sentimento assoluto e a senso unico. D'altronde, sono noti i suoi metodi, diciamo così, forti e chiusi di gestione dei partiti che gli è capitato nella sua ormai lunga carriera politica di guidare e anche di sciogliere. Reclamare con lui il rispetto dello statuto per convocare un congresso o una riunione di direzione, o altro organo, corredata di regolare dibattito e votazione è stato spesso tanto inutile quanto rischioso. Francesco Storace, ex ministro della Sanità ed ex governatore della regione Lazio, per esempio, ne sa qualcosa. Forse proprio perché conosceva le abitudini e lo stile di Fini, una volta soddisfattane la richiesta di assumere il ruolo istituzionale, e perciò neutrale e defilato, di presidente della Camera, Berlusconi commise l'indubbio errore di una gestione non so dire se più paternalistica o sommaria del partito nato dalla fusione tra Forza Italia e Alleanza Nazionale: il Popolo della Libertà. Alla convocazione della cui direzione nazionale, o come diavolo si chiama, di dimensione peraltro pletorica, si provvide per la prima volta dopo più di un anno, per quanto intenso di scadenze elettorali per il rinnovo del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali e di tante amministrazioni comunali e provinciali. Scadenze - va onestamente ricordato - nelle quali il presidente del Consiglio Berlusconi si impegnò in prima persona, diversamente da Fini. Che allora mostrò per il suo ruolo "istituzionale" un rispetto, o uno scrupolo, non certo paragonabile a quello attuale. Detto tutto questo sul versante del centrodestra, va aggiunto qualcosa sul versante del centrosinistra o, più in generale, della sinistra per rilevare anche qui qualche aspetto troppo singolare del tardivo indice sollevato ieri da Fini. Non ho nessuna voglia o pretesa di difendere l'indifendibile segretario del Pd, avvoltosi pure lui negli stracci dei processi al presidente del Consiglio, delle proteste femministe e della fantomatica raccolta di dieci milioni di inutili firme contro l'odiato cavaliere. Ma egli merita, a mio modestissimo avviso, il riconoscimento di una circostanza attenuante nel processo che sta subendo nel suo partito, e ora anche da Fini. Con il suo pur generico "Progetto per l'Italia" Bersani aveva avviato, all'indomani della sua elezione a segretario del maggiore partito di opposizione, un tentativo di lanciare qualche proposta politica diversa dalle solite invettive contro Berlusconi. A interrompere la sua fatica, e a farlo tornare sulla vecchia e improduttiva strada dell'antiberlusconismo sordo e cieco, è stato proprio Fini quando ha rotto con il Cavaliere, è passato all'opposizione e ha dato al Pd e dintorni l'illusione di poter costruire in quattro e quattr'otto un'alternativa parlamentare e persino elettorale a Berlusconi. Egli ha lasciato che i suoi Bocchino, Briguglio e Granata, tutti puntualmente promossi con il congresso fondativo del partito, incoraggiassero gli altri gruppi d'opposizione a immaginare cartelli di liste da emergenza o salute pubblica per infliggere nelle urne a Berlusconi la sconfitta mancata nelle aule parlamentari. Come se fosse peraltro possibile strappare al Quirinale lo scioglimento anticipato delle Camere senza il passaggio di una crisi. È così che il povero Bersani è affogato nel fiasco di Fini.  

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