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Da guida a gregaria

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Alcuni amici progressisti si stanno da un pezzo chiedendo, costernati, come sia potuto accadere che la sinistra italiana, da guida del popolo che aspirava a essere, decadesse al rango di gregaria del popolo dei guitti. Interrogativo toccante, che sembrerà addirittura struggente nel caso che a porselo sia qualche vecchio alunno dell'antico e glorioso Pci, capace, come tale, di formularlo con le parole e i concetti in uso nell'età togliattiana. Ma quanti sono oggi gli orfanelli di quella chiesa politica che ricordano l'esatta definizione che essa dava allora di sé stessa? Temo che non la rammenti nemmeno Napolitano, l'esponente più autorevole e garbato di quella famiglia di nobili superstiti. L'espressione più pregnante allora ammessa per definire il partito era questa: “avanguardia consapevole e organizzata della classe operaia”. Ragion per cui quella con cui gli eredi di quell'avanguardia dovrebbero definire la loro parte politica non potrebbe essere che questa: “retroguardia inconsapevole e disorganizzata della classe dei pagliacci”. Da questo confronto fra il lessico classista con cui la nostra sinistra amava descriversi una volta e quello farsesco con cui le converrebbe dipingersi oggi nulla tuttavia può dedursi sulle vere cause di questo mutamento lessicale. La comparazione lascia anzi affiorare un ulteriore quesito: come mai il passaggio dal culto operaio, sbandierato dall'antica definizione ufficiale, all'idolatria dei buffoni, espressa oggi, anziché favorire l'esplosione di letizia che dovrebbe accompagnarsi all'accettazione del magistero dei guitti, ha generato al contrario una strepitosa eruzione di acredini e mestizie? L'apparente contraddizione è figlia dell'assoluta incapacità della sinistra di elaborare i lutti dei primi anni novanta, ossia del sentimento di indistruttibile stupefazione con cui la sinistra italiana considera la batosta di quegli anni. Questo stato di insuperabile sbigottimento, vista la natura di quei colpi, è perfettamente comprensibile. In meno di cinque anni, fra il 1989 e il 1994, a quell'orgogliosa signora accadde infatti di dover fronteggiare e metabolizzare gli effetti di un evento – il collasso del mondo comunista – che per lei comportava, né più né meno, il crollo di quasi tutte le sue certezze ideologiche, le sue abitudini politiche e le sue pretese culturali. Dalla crisi devastante generata da quell'evento inatteso avrebbe dovuto tentare di uscire affrontando finalmente lo scoglio di quel serio riesame autocritico di tutta la sua storia che invece ha sempre cercato di evitare. Anziché accettare questa sfida, preferì eluderla tentando di sfruttare a suo vantaggio gli effetti dell'èra di Mani Pulite, e a tal fine decise di rilanciarsi alla grande sventolando, sui cocci della Prima Repubblica, un'altro mito: la bandiera della cosiddetta “questione morale”. Armata di questo vessillo si rigettò nella lotta con l'allegra convinzione che l'ora del traguardo agognato – la conquista del potere assoluto e irreversibile – fosse ormai scoccata. Arrivò invece la sconfitta più dura, inattesa e per lei incomprensibile: l'avvento di una stagione – l'età berlosconiana – che nonostante tre lustri di agguati mediatico.giudiziari non vuol saperne di tramontare. Perché dunque stupirsi dell'inestinguibile sgomento di questa antica magistra di storia e di rancore? E del prodigioso talento con cui sembra decisa ad affidare ai giullari lo stendardo della rinascita? E del disperato entusiasmo con cui sta tentando di sopravvivere a se stessa passando dalle luci della politica a quelle del varietà?  

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