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Pancia piena e testa vuota

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Lenavi americane ci metteranno un paio di giorni a posizionarsi sul teatro di guerra, mentre gli insorti - che hanno ottenuto l'appoggio del Dipartimento di Stato - attendono a questo punto le mosse e le istruzioni di Washington. Se fossimo in una corsa, saremmo all'istante del surplace, prima del giro finale e del traguardo. Sarebbe tutto maledettamente più facile se davanti a Obama non ci fosse un Gheddafi al crepuscolo, che digrigna i denti come un animale ferito, ma un uomo pronto a lasciare che la Storia faccia il suo corso. È una ciclopica guerra di nervi che gli Stati Uniti non avevano messo nel conto. La presidenza di Obama in questo senso sta ripercorrendo quella di Bush. Il presidente repubblicano non aveva come primo punto della sua agenda la politica estera, ma l'11 settembre 2001 mise i «Vulcans», il gabinetto di consiglieri di Bush, di fronte a un nemico capace di colpire gli Stati Uniti al cuore. Il 12 settembre il mondo è cambiato. Obama ha ereditato due guerre - Afghanistan e Iraq - e un generale David H. Petraeus che a Baghdad ha trovato la soluzione mentre ancora a Kabul non c'è una victory strategy che funziona. Ma per Barack l'emergenza, il primo punto del programma, era un altro: l'economia, l'uscita degli Stati Uniti dal buco nero della crisi finanziaria e della recessione. La politica estera era un carnet di buoni propositi, in linea con il «yes we can» della campagna elettorale, con il discorso retorico pronunciato a Il Cairo dal Presidente, ma niente di più. Obama si era presentato come il più classico degli isolazionisti, senza mai dirlo, ma di fatto proponendo una ricetta in cui il grande guardiano del mondo erigeva un muro in patria e sperava nella nascita di un multilateralismo illuminato per la soluzione dei conflitti. Questo piano - difficile in realtà definirlo tale - si è scontrato con la dura realtà del Medio Oriente prima e dell'Africa del Nord subito dopo. Una potenza nucleare in fieri come l'Iran, l'impazienza e i timori di Israele, le difficoltà del Pakistan, il collasso dell'Egitto, l'implosione della Tunisia, le rivolte in Bahrein, hanno presentato a Obama lo scenario che all'inizio della sua avventura alla Casa Bianca voleva riporre nel cassetto: gli Stati Uniti sono ancora l'unica potenza in grado di usare la forza in tempi rapidi per spegnere incendi che possono propagarsi fino a noi. Nessun altro si è fatto avanti per assumersi questa responsabilità: non l'Europa imbelle e senza spina dorsale, non la Cina che sta costruendo un suo esercito, ha in Africa enormi interessi economici ma non vuole gettarsi nella mischia, non la Russia che in Consiglio di Sicurezza si è opposta a un intervento militare americano ma sa di dover prima o poi capitolare. L'America è chiamata ancora una volta a svolgere la sua missione. La Libia non è un paesello desertico qualsiasi, non è un rebus tribale che si risolve piantando una tenda nel deserto, stringendo quattro mani, offrendo un pugno di perline colorate e saluti a tutti. La Libia è petrolio, gas, le sue coste s'affacciano sull'Europa, i suoi confini ora sono aperti a chi traffica in Niger, Egitto, Tunisia e Chad. Giusto per fare un esempio: il Niger produce uranio, il Chad esporta mercenari. Non è un mondo per il circolo dell'uncinetto quello che abbiamo davanti. Per queste ragioni il paradigma della crisi economica applicato alle banche - too big to fail, troppo grande per fallire - è stato applicato direttamente alla situazione libica: è un Paese troppo grande e aperto alle scorribande di soggetti nocivi alla salute per poter implodere nel caos. Di tutto questo in Italia non si discute per niente. Il deserto è qui. È un quadro desolante che presenta un Paese chiuso in se stesso, timoroso di prendere l'iniziativa, bloccato dalla partigianeria dei protagonisti politici. La maggioranza si è resa conto tardi dell'accelerazione dello scenario post-Gheddafi e ha balbettato parecchio prima di dire due parole chiare sul flipper insanguinato e il game over mentale del Colonnello, mentre l'opposizione è semplicemente disarmante nelle sue contraddizioni e meschinità politiche. I libici muoiono, la sinistra rotea come un avvoltoio sperando che tutto questo si traduca in una caduta del governo per mano della piazza egitto-girotondista. È un quadro deludente, riflesso anche dall'informazione. Il mondo davanti a noi brucia ma - tranne qualche bella eccezione - i titoloni sono per la cronaca nera, il gossip politico più rancido, fattacci che non cambiano la nostra vita ma servono da capro espiatorio per metabolizzare la nostra assenza di visione e coraggio, pagine di putrefazione che servono a trovare altri colpevoli per la nostra indifferenza. Se qualcuno avesse fatto un giro per le strade de Il Cairo, dato un'occhiata ai nugoli di bambini che giocano nelle metropoli del Nord Africa e del Medio Oriente, si accorgerebbe che abbiamo di fronte una minaccia e un'occasione. Quel mondo che guarda le nostre coste cresce, fa figli, si moltiplica, mentre da noi la crescita è a tasso zero. Quel mondo giovane e vigoroso aspira ad essere libero, mentre noi siamo prigionieri di un benessere che non è per sempre. Abbiamo la pancia piena, ma la testa appare vuota.

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