Pagliaccio e tiranno
È evidente che Muammar Gheddafi appartiene all'esecrabile famiglia di quei tiranni che sono al tempo stesso tante, troppe cose. Con tanti troppi volti. Criminali, mostri sanguinari, pazzi furiosi e tragici pagliacci. Ma non è meno evidente che la sua figura può suscitare, insieme al disgusto e all'orrore, anche il non troppo vago sospetto che in quel guazzabuglio del suo cuore si nasconda non so quale profondo, insondabile enigma. E questo per molte diverse ragioni. La prima è una ragione drammaturgica. È impossibile infatti non riconoscere un alto rango drammatico alla sua decisione di morire in piedi promettendo ai suoi nemici l'inferno. Questo fra l'altro aggiunge alla sua figura un tratto che non si riscontra in nessun altro grande dittatore del nostro tempo. Nessuno dei celebri despoti del Novecento dimostrò, nell'ora della sventura, di essere, come lui, all'altezza del proprio tragico destino. Mussolini tentò di scamparla fuggendo travestito da tedesco. Hitler si suicidò nel bunker dove si era nascosto per giorni col piccolo gruppo dei suoi fedelissimi. Stalin crepò nel suo letto oppresso dai terrificanti fantasmi della sua micidiale paranoia. Modi di affrontare la sconfitta e la morte altrettanto degni di rispetto come quello scelto dal rais libico sono forse soltanto - come ieri ha osservato il direttore di questo giornale - quelli di quei personaggi di Shakespeare che non cessano (vedi, per fare gli esempi più ovvi, Macbeth e Riccardo III) di suscitare il nostro inorridito stupore. La seconda è una ragione psico-politica. I miei gusti, in questo campo, se da un lato mi impongono di detestare ogni forma di tirannide, dall'altro non mi permettono di apprezzare troppo i furori e le illusioni delle folle in piazza, il loro incoercibile istinto gregario, la loro vocazione alle ebbrezze unanimi, la loro inclinazione alle più vaghe e nebulose speranze. Soprattutto mi deprime la loro eterna tendenza a favorire, con la loro cecità, corsi di eventi e processi storici che finiscono sempre, immancabilmente, per produrre effetti opposti a quelli immaginati e sognati. E ancor più mi ripugna quella forma di suprema codardia che si esprime nell'irresistibile impulso (sempre pronto a manifestarsi tra le masse in rivolta) a sferrare il calcio dell'asino al leone moribondo scimmiottando i modi dell'audacia e dell'eroismo,. La terza è infine una ragione religiosa. La mia personale lettura dell'insegnamento cristiano sul valore della pietà mi dice infatti che per credersi e dirsi cristiani non basta provare compassione per i deboli, i poveri, gli sventurati e gli oppressi. Occorre riuscire a sentire pietà anche per i ricchi, i fortunati e gli oppressori. Per avere pietà dei primi non ci vuole molto ma per averne dei secondi occorre invece il cuore misericordioso come quello del sommo poeta che alla più feroce e tragica delle sue tiranniche creature fece pronunciare, nell'ora della sventura, un attimo prima di affrontare la sua ultima vana battaglia, questa memorabile battuta: «Domani, poi domani, poi domani: così, da un giorno all'altro, a piccoli passi, ogni domani striscia via fino all'ultima sillaba del tempo prescritto; e tutti i nostri ieri hanno rischiarato, a degli stolti, la via che conduce alla polvere della morte. Spengiti, spengiti, breve candela! La vita non è che un'ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla» (Macbeth: atto V, scena V, vv. 17-27).