Nella storia di domani
{{IMG_SX}}Era, il 1911, l'anno del primo cinquantenario dell'Unità. L'Italia dette inizio, allora in piena epoca giolittiana, alla sua avventura coloniale in Libia. I versi di una bella e suggestiva canzone glorificarono l'impresa e l'immortalarono. La prima strofa esaltava il paese sconosciuto, idealizzato come un Eldorado: «Sai dove s'annida più florido il suol?/ Sai dove sorride più magico il sol?/ Sul mar che ci lega con l'Africa d'or,/ la stella d'Italia ci addita un tesor./ Ci addita un tesor!». E il ritornello iniziava con una frase destinata a diventare celeberrima: «Tripoli bel suol d'amore/ti giunga dolce questa mia canzon!». Agli italiani, nel complesso, quella guerra piacque e fu popolare. La volle non solo il governo, ma uno schieramento politico vasto e trasversale che comprendeva nazionalisti, cattolici, molti democratici, non pochi sindacalisti rivoluzionari, taluni socialisti. Giovanni Pascoli esaltò il fatto che finalmente anche l'Italia, "la Grande Proletaria", si fosse mossa. Non mancò, naturalmente, chi condannò l'avventura irridendo "l'imperialismo straccione" dell'Italia. Tra questi lo storico Gaetamo Salvemini che parlò di quella terra promessa come di uno "scatolone di sabbia" e che liquidò acrimoniosamente l'impresa italiana con queste parole: «Avevamo paura di essere creduti astemii e comprammo una botte piena d'aceto». Vale la pena di ricordarla la conquista italiana in questo momento nel quale si sta consumando tragicamente il destino di Gheddafi e della sua dittatura sanguinaria. Vale la pena di ricordarla proprio perché - lo rilevò Sergio Romano in un suo bel libro dedicato all'impresa di Tripoli - la Libia nasce con l'Italia, non essendovi in quei territori, prima della colonizzazione, nessuna unità statuale o amministrativa ma soltanto tribù. La conquista dette a quei territori unità amministrativa, li fece entrare nella storia e fornì loro una base sulla quale edificare un sentimento nazionale. Non a caso Gheddafi ha costruito il proprio potere sul mito della liberazione dalla "tirannia coloniale" italiana e tale mito ha evocato nei momenti critici e, anche, in questi ultimi giorni come appello al patriottismo nazionale. L'attenzione italiana per la Libia si inserisce, storicamente, nella più generale attenzione per tutta l'area mediterranea e mediorientale che ha rappresentato da sempre per l'Italia una zona di prioritario interesse strategico. Nel secondo dopoguerra, la politica mediterranea e mediorientale italiana fu caratterizzata da un certo dinamismo, pur nella indiscussa appartenenza all'area delle democrazie occidentali. Questa politica ebbe risvolti economici, simboleggiati dalle iniziative in campo energetico di Enrico Mattei, che, alla guida dell'Eni, riuscì a stipulare con Libia, Tunisia, Egitto accordi favorevoli a questi paesi produttori. All'attivismo della diplomazia economica fece da contrappeso una maggiore iniziativa politica, che si trovò a dover fare però i conti con la delicatezza di una situazione che vedeva l'Italia impersonare il ruolo sia di interlocutore privilegiato del mondo arabo sia di amico sincero di Israele. Dalla seconda metà degli anni settanta, l'Italia aprì le porte - si pensi all'accordo tra Libia e Fiat - alla penetrazione finanziaria dei paesi esportatori di petrolio e, al tempo stesso, cercò di trasformare il Medio Oriente in uno sbocco per le sue esportazioni. Con gli anni '80, per l'amicizia con Israele e il rapporto con gli Stati Uniti, dovette confrontarsi col terrorismo mediorientale, attivato dalla Libia di Gheddafi. A questo personaggio, tirannico e crudele, cinico e astuto, riconosciuto finanziatore di gran parte del terrorismo internazionale, l'Italia ha mostrato di cedere con troppa facilità di fronte a pretese o richieste esorbitanti e ingiustificate in nome di un passato colonialista da farsi perdonare. Troppo spesso, e troppo facilmente, l'Italia ha ceduto a un complesso di colpa che in realtà non avrebbe ragion d'essere e che è espressione di quel "masochismo occidentale" che Pascal Bruckner ha stigmatizzato in due splendidi saggi - Il singhiozzo dell'uomo bianco e La tirannia della penitenza - che denunciano la malattia del pentitismo di cui soffrono l'Europa e l'Occidente. Ma questo non ha impedito all'Italia, com'era giusto che fosse, di imbastire con la Libia importanti rapporti economici e finanziari. Come, del resto, hanno fatto altri paesi europei: la Francia, per esempio, che fornì a Gheddafi i primi aerei da combattimento o la Germania che gli costruì un'industria chimica o, infine, la Gran Bretagna. E non impedirà, tutto quanto è accaduto, che, quando sarà calato il sipario sulla fosca tragedia che ha colpito la Libia e i paesi circonvicini, l'Italia abbia e debba svolgere un ruolo importante nella zona.