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Il problema è solo Gianfranco

Fini con il capogruppo dei

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Pur se vi fosse malauguratamente tentato per quieto vivere, viste anche le complicazioni di ogni tipo in arrivo dalle coste africane, il capo dello Stato non può più rimanere estraneo, o soltanto silenzioso, dopo lo scontro avvenuto ieri in aula tra i presidenti della Camera e del maggiore gruppo parlamentare. Dall'anomalia, al vertice di Montecitorio, siamo ormai passati allo scandalo politico. È accaduto, in particolare, che il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto ha contestato a Gianfranco Fini come "insostenibile" il crescente "contrasto tra l'essere presidente della Camera e leader politico. E ad insinuare infamanti sospetti, pur ammettendo pubblicamente di non avere prove, a carico dei deputati del suo e di altri gruppi d'opposizione passati o tentati dalla maggioranza. Fini si è beffardamente dichiarato "d'accordo" con il suo contestatore "sulla situazione insostenibile", ma del governo. Che proprio ieri, nella stessa aula, ha però incassato l'ennesima fiducia con il voto sulle modifiche al decreto legge "mille proroghe". Non si vede, francamente, come si possa ritenere e definire dall'alto della terza carica dello Stato "insostenibile" la situazione di un governo che conserva la fiducia sia quando la chiede, come è appunto accaduto ieri, sia quando le opposizioni cercano di fargliela negare, come accadde il 14 dicembre scorso su iniziativa anche del gruppo finiano. Non più tardi di qualche giorno fa, del resto, è stato lo stesso presidente della Repubblica a ricordare che una compagine ministeriale dura finchè dispone di una maggioranza. Dov'è allora il problema "istituzionale" del governo attuale che tanto inquieta il presidente della Camera, sino a fargli perdere anche in aula il controllo politico dei nervi, per fortuna non al punto di lasciar passare senza un richiamo al solito Antonio Di Pietro il provocatorio paragone di Berlusconi a Gheddafi? Il problema è solo lui. Ed è diventato grosso come una casa: non quella miserabile, per carità, di Montecarlo. Che lo ha visto incredibilmente iscritto solo per poche ore, se non minuti, nel registro degli indagati alla Procura di Roma. No, mi riferisco alla casa ben più grande di tutti gli italiani: il Parlamento. Posso capire a questo punto la copertura che, sia pure con qualche imbarazzo, continua a fornire al presidente della Camera il suo nuovo alleato Pier Ferdinando Casini. Al quale la debolezza istituzionale di un Fini aggrappato ad un regolamento a dir poco anacronistico, che non prevede la possibilità tecnica di sfiduciarlo, può far comodo per ridimensionarne il peso nel cosiddetto terzo polo e conservarne tutta intera per sè la leadership. Non capisco invece perché mai il sempre più sfacciato e perciò debole vantaggio tattico che può loro derivare da una presidenza della Camera ostile all'odiato Cavaliere induca i dirigenti del maggiore partito di opposizione, particolarmente quelli provenienti dal Pci, a svilire l'immagine politica di una istituzione così ben onorata, in ordine rigorosamente cronologico, da comunisti come Pietro Ingrao, Nilde Jotti, Giorgio Napolitano e Luciano Violante. Che fecero sempre prevalere la neutralità del loro ruolo sullo spirito di fazione, anche a costo di clamorosi scontri con il loro partito, come quelli di Nilde Iotti con il Pci di Enrico Berlinguer durante il primo governo Craxi. Altri tempi, evidentemente, altri uomini, altre donne.

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