segue dalla prima di MAURIZIO GALLO La paura di restare senza gas e petrolio da un lato, e quella del terrorismo dall'altro, hanno frenato lo sviluppo della democrazia nel Nordafrica.
Èora che l'Europa rimedi alla cronica assenza di una sua politica estera nei confronti della sponda meridionale del Mediterraneo. A sostenerlo è Hassan Abouyoub, da dieci mesi ambasciatore in Italia «di sua Maestà, il Re del Marocco». Ambasciatore, come nasce la rivolta in corso nei Paesi arabi del Nord? «Come sono nate le rivoluzioni francese e russa. Un po' anche per caso. Esiste, comunque, una certezza storica: le autocrazie non durano mai a lungo. E il mondo arabo non fa eccezione alla regola. Certo, la ribellione è nata su un terreno fertile e favorevole». Quale? «La causa scatenante è stata la pressione continua che ha compresso i diritti fondamentali dell'individuo, le libertà di espressione, movimento, associazione e di manifestazione». Ci sono stati anche fattori che hanno accelerato questo processo? «Sì. Uno è stato lo sviluppo fantastico del mercato dell'informazione, internet e telefoni cellulari in particolare. Questi strumenti hanno permesso di superare il concetto stesso di frontiere, creato uno spazio di libertà e mostrato agli arabi come si vive in Occidente, dando loro la possibilità di paragonare il loro stile di vita con il vostro. La maggiore possibilità di movimento, poi, ha creato un flusso permanente di informazione, diffondendo altri modelli intellettuali e di consumo». Perché tutto è cominciato in Tunisia? «Una persona si è data fuoco. Ed è stata la miccia. Ma è molto difficile prevedere questi fenomeni, come è stato difficile prevedere il Maggio francese nel '68. Già nel primo rapporto sullo Sviluppo Umano delle Nazioni Unite scritto da arabi, gli esperti identificavano le malattie sistemiche del mondo arabo e le possibili soluzioni...». Quali? «Lo sviluppo della democrazia, la liberazione delle donne. Valori comuni e ormai recepiti dall'Accordo di Barcellona, che nessuno però ha mai rispettato». In tutto questo l'Europa che ha fatto? «Per quanto riguarda la sponda Sud del Mediterraneo, è mancata una vera politica estera dell'Unione europea. L'Ue ha pensato che il mantenimento dello status quo nei Paesi arabi fosse sinonimo di stabilità politica. Dal '73 in avanti, dopo la guerra del Kippur, si è sviluppata un'ossessione energetica, diventata arroganza. Con i primi attentati terroristici in ambito urbano, quest'arroganza si è trasformata in paura dell'altro. Infine, la paura ha generato la strategia europea, che consiste nel trattare la sponda Sud unicamente da un punto di vista della sicurezza globale. E la guerra al terrore ha rafforzato le dittature». Come vede la situazione libica, come pensa che finirà? «Non è facile dirlo. Però, è necessario contribuire alla transizione e creare un clima favorevole alla democrazia». Molti paventano il pericolo del trionfo dell'estremismo islamico nel dopo-Gheddafi... «Ciò è frutto della dottrina di sicurezza dell'Occidente. Ma è un errore. Il pericolo islamico, se vogliamo chiamarlo così, è motivato anche dall'assenza di spazi di libera espressione. Il Marocco, per esempio, ha integrato l'islam politico nel gioco istituzionale. Questi partiti hanno partecipato alle elezioni e oggi rappresentano l'opposizione in Parlamento. Così hanno i mezzi per trasmettere il loro messaggio. Perché demonizzare Hamas, quando ha vinto le elezioni? Come spiegare all'opinione pubblica araba che i Paesi occidentali fanno da arbitro finale nelle nostre prerogative democratiche? Tale atteggiamento europeo e statunitense ha rafforzato i dittatori e gli integralisti». Anche nel suo Paese ci sono manifestazioni di protesta. Com'è la situazione in Marocco? «Da noi c'è libertà di manifestare. I manifestanti hanno criticato con violenza il governo e il primo ministro. Tuttavia, non hanno mai messo in discussione la legittimità del Re». Il caos in Libia metterà a rischio i nostri rifornimenti energetici? «Credo che sia un timore ingiustificato. Per ora si tratta di speculazioni legate ai disordini geopolitici. E abbiamo imparato che questi fenomeni non durano a lungo. In Italia si teme l'arrivo di centinaia di migliaia di profughi. Che fare? «Non ho certezza dei numeri. Ma è una conseguenza di quanto accade in Libia. E allora il problema non sono i migranti. Il problema è risolvere la crisi libica. L'Europa deve aprire un dialogo bilaterale con Gheddafi e con i rivoltosi. Perché questa emergenza è stata trattata con un approccio diverso da quanto avvenuto con i Balcani? La crisi, infine, ha dimostrato che il progetto del Grande Mediterraneo elaborato all'inizio degli Anni '70 non è mai decollato. Oggi, però, abbiamo una nuova opportunità di reinventare e rinnovare quel progetto. E c'è un Paese che può svolgere il ruolo di honest broker, di onesto intermediario. Questo Paese si chiama Italia».