La Canzonata
Quando l'altra sera è comparso il compagno Ferrero con i suoi bivacchi di manipoli rifondaroli, si è capito che Sanremo è sulle rive del Mar Caspio. Brezze gelidamente nostalgiche penetravano i carrugi, mentre fremeva lo sdegno del lumpenproletariat ai margini del casinò, come sempre zeppo di cumenda e signore avvolte in pellicce umane. Ferrero che infiorettava di gorgheggi virili la proibitissima "Bella Ciao", cercando di sovrastare gli acuti di Al Bano per Amanda, o di distrarre l'attenzione del popolo dai trottolini amorosi di Barbarossa con la moglie del ferrarista. Del resto, l'occasione era ghiotta. Mai come quest'anno l'Ariston si è rivelato essere un solido bunker del pensiero "de sinistra", in tutte le sue variabili. Il conduttore, i comici, i cantanti. Con Raiuno a provare la vaga e scomoda sensazione di essere in ostaggio: non tanto dell'ideologia di ritorno, quanto della necessità di fare ascolti in ogni modo possibile, meglio se mazzolando sul Cavaliere e le sue vicissitudini trash-pop. Da Viale Mazzini non partivano input convincenti, né pareva delineata una linea di contenimento del satirume e delle dichiarazioni eccentriche: forse perché in troppi, ai piani alti, si stavano concentrando sull'eventualità del «riposizionamento», badando più a guardare la statua del cavallo morente dell'ingresso che non la carica del cavallo di Benigni. La Rai si è goduta il supershare (spot da ottomila euro al secondo), affidando al solo consigliere Verro il compito di farsi strapazzare da Mazzi o da Luca e Paolo, dopo aver notato che certe gag contenevano delle «cadute di stile». In diretta è finita a omaggi floreali, ma Verro riproporrà la questione nel cda di giovedì, e si vedrà come e se collocare la «nuova» Raiuno sbarazzina e satirica. Il direttore di rete Mazza, sventolando l'audience della finale (una media "ponderata" di 12 milioni e rotti di telespettatori con il 52.12 per cento di share, in linea con i successi precedenti), ha già cominciato a lavorare alla prossima edizione con il suo quasi omonimo Mazzi. «Se non ci cacciano prima», si era lasciato sfuggire, mascherandola da battuta, quando qui si accendevano le luci per la seratona del sabato. E ieri mattina Mazza, in conferenza stampa, si è ulteriormente coperto le spalle proponendo di fronte a settecento giornalisti il bis a Morandi. Che - se aveva capito davvero - si è visto improvvisamente materializzare lo spettro di altri sei mesi di lavoro attorno a un nuovo progetto. Se accetterà dovrà fare a meno delle due Iene, legate da un contratto di ferro per altri sei anni a Mediaset, e alla faccia del suo ormai proverbiale "Stiamo uniti" dovrà allestire un'altra squadra. Perché lui, ha sottolineato, non crede si possa fare tutto da soli. «Ce n'è uno solo in Italia che dice "ghe pensi mi", io sostengo invece la forza del lavoro di gruppo». Il compagno Morandi: quello che da ragazzino cantava alla Casa del Popolo, e che in pieno Festival aveva detto che lui sarebbe andato «in prima fila, anche da uomo», alla manifestazione delle donne. Dove, otto giorni fa a Roma, era stata catapultata in aereo la giovane Emma: nel giro di una settimana da idolo dei talent a pasionaria della rivendicazione di dignità femminile, in una operazione a metà fra la promozione artistica, la provocazione santoresca (Michele poi ha dovuto rinunciare al blitz del collegamento in diretta per Annozero con la sanguigna salentina). Quanto a Vecchioni, le sue simpatie sono onestamente dichiarate, e la qualità artistica del brano è incontestabile. Ma come leggere in filigrana il consenso di massa per «Chiamami amore»? È una tirata d'odio contro l'Italia berlusconiana? Forse. Quei versi su «questa maledetta notte che dovrà pur finire», sui ragazzi che il professore induce a difendere in piazza «un libro vero», quell'immagine «dell'operaio che non ha più lavoro», e sopratutto su quei soldati che se ne stanno «a morire in un deserto come in un porcile» hanno probabilmente indotto molti fans a votarlo per protesta contro i «signori del dolore», piuttosto che accogliere la canzone come una nobile orazione civile, oltre che sentimentale, che nella sua grana retorica può essere condivisa da chiunque, a destra come a sinistra. Di Benigni sappiamo: la sua "Italia minorenne" e gli insegnamenti a Bossi sulla "vittoria schiava di Roma" hanno preparato il terreno a un Bignami evocativo quanto pasticciato della storia patria. Con il toscano a vivere il paradosso, lui di fiera stirpe comunista contadina, di ritrovarsi a far la foglia di fico al Cavaliere: Santoro dixit. Ma un premio Oscar è difficilmente criticabile, anche quando dice cose risapute, e sopratutto quando incassa elogi dal Quirinale come da Oltretevere. Quanto a Luca e Paolo, "Ti sputtanerò" ha sbancato la loro personale hit parade satirica: perché senza martellare i calli di Berlusconi non ci si diverte, come poi hanno dimostrato le fiacche punzecchiate ai nani della sinistra. Hanno recitato Gramsci, provocando sussulti dolorosi a Masi in prima fila. E hanno finto di rispettare la par condicio, finchè Luca non è sbottato davanti a milioni di telespettatori: «Di essere bipartisan non me ne frega un cazzo». Non poteva essere altrimenti, al Festival dell'Unità.