Il festival del luogocomunismo dimostra che il regime non c'è

{{IMG_SX}}Nel tempio del nazional popolare, nella trasmissione televisiva più seguita e nel canale più potente ha trionfato il paradigma culturale della sinistra luogocomunista. Che non è né migliore né peggiore del luogocomunismo centrista e parrocchiale, ma, appunto, segnala che se anche San Remo è protettore della resistenza contro il «regime» ne deriva che fingere la sua esistenza è parte stessa della nostra costituzione materiale. Il conduttore è un vecchio comunista. Il vincitore anche. Non si offendano e non rechino offesa al buon senso obiettando che tale osservazione è fuor di luogo, perché essi sono dei grandi professionisti, entrambi ammirevoli, entrambi parte della vita personale e collettiva di ciascuno di noi, ma, appunto, se la presa del despota sul più importante mezzo d'informazione e formazione, la televisione, fosse effettivamente quella che si favoleggia questa ovvia constatazione non sarebbe stata possibile. In realtà, ancora una volta, si dimostra che il noto leader politico non è l'occulto regista, il nascosto burattinaio della televisione italiana, che direttamente o indirettamente controlla, ma, più prosaicamente, il suo più accorto interprete, il suo più apprezzato (elettoralmente parlando) prodotto. Il successo delle canzoni sarà decretato dal mercato, dalle vendite e dalla memoria successiva. Ciò significa che sbancheranno ancora i ritmi d'importazione, le videoclip ossessive e industrializzate. Che il vincitore non sarà in cima alle vendite, come già non è in cima alla lista dei brani scaricati da internet. Ma Sanremo non è solo una gara canora, un festival per sostenere un prodotto nazionale, è anche un modo per raccontare l'Italia agli italiani, un pezzo della nostra narrazione comune. E qui ci sono elementi significativi. La canzone vincitrice è un inno agli immigrati che arrivano e che non solo non vanno respinti, ma si dovrebbe prelevarli direttamente a casa loro, il che non sarà mai possibile, chiunque governi, ma la dice lunga sul modo in cui a una certa Italia piace immaginare sé stessa. È una serenata ai giovani che scendono in piazza, immaginandoli antagonisti del «potere», naturalmente, e non degli interessi che essi devono battere, incarnati dai loro genitori, dai lavoratori protetti e da quella spesa pubblica di cui, del resto, lo stesso cantautore è espressione. Una rivolta immaginaria, pertanto, che chiede il cambiamento radicale ma non sa cosa cambiare. Giovani che amano «il» libro, ignorando che l'unico valore inestimabile è quello delle biblioteche contenenti idee, suggestioni, condotte diverse. Ogni corpo sociale ricondotto a corporazione, talché a ciascuno si possa dar ragione. Più che una canzone è il dramma della sinistra italiana. Apro una parentesi: ieri me la prendevo con un quotidiano inglese, pur riconoscendone le ragioni, anche nel sostenere che la nostra è una società gerontocratica, ebbene, il primo e il terzo posto di San Remo sono andati a cantanti che erano già lì quando andavo a scuola. La serata vincitrice è stata quella di Roberto Benigni, che ha portato in trionfo il luogocomunismo storico, il recupero patriottico dell'Inno, cantato nella sua versione ridotta e illustrato evitandone i significati: dal fatto che l'Unità si fece contro la Chiesa al fraterno riferimento al popolo polacco, che perse la libertà ad opera del cosacco e la riconquistò alla caduta dell'Unione Sovietica. Come se quell'inno sia stato negletto e dimenticato per una sorta d'incuria del potere, anziché per la dominanza di una corrente culturale che lo voleva orrido, retorico, con valori negativi e, soprattutto, cantabile solo a patto d'essere militare o fascista. Benigni è stato il superbo interprete di un vizio nazionale: la storia si supera e dimentica, anziché essere conosciuta e digerita. A un certo punto del festival è comparsa sullo schermo l'immagine di Antonio Gramsci, uno dei pensatori più potenti della nostra storia. Ridotto in pillola, come lo volle, sfregiandolo, Palmiro Togliatti. Gramsci, ancora una volta, ha fatto le spese del luogocomunismo, della colta ignoranza. Tutto questo in un Paese in cui taluni si sentono combattenti contro il «regime». Quale? Probabilmente quello che li paga, imponendo ai cittadini una tassa chiamata canone. Ecco, questo sì è un buon motivo per ribellarsi.