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Non digeriscono la politica del tubo

Silvio Berlusconi e il leader libico Gheddafi

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C'è una gran voglia di tornare alle scorribande di lanzichenecchi, alla calata di mercenari su Roma per far bottino. Era già successo con Mani Pulite e lo scenario si sta ripetendo oggi con le stesse ritualità: in casa nostra la magistratura, la tecnocrazia irresponsabile e una politica debole e vile convergono per abbattere il sistema politico e mettere il Paese in una condizione di sovranità limitata, cioè nello status in cui era prima della caduta del Muro di Berlino. I poteri forti del Vecchio Continente - Stati e organizzazioni transnazionali - cercano di soffiare sul fuoco e favorire un clima da regime change libico-egiziano anche in Italia. Berlusconi come Mubarak e Gheddafi. Questo leggiamo su giornali che di autorevole hanno la testata ma non gli articoli che si occupano di Italia. Non penso all'Internazionale Illuminista - quella disegnata dal compasso e in crociera sul Britannia - ma a un combinato-disposto di forze che dall'indebolimento del Paese e dalla sua riduzione alla dimensione spaghetti e pistola (famigerata copertina del settimanale tedesco Der Spiegel proposta la prima volta nel 1977 e ripubblicata, ma guarda un po', nel 1994) ha tutto da guadagnare. Le ragioni sono quelle che spiega Davide Giacalone nel suo articolo qui sotto, io posso solo testimoniare che la nostra «politica del tubo», quella dell'indipendenza energetica, dello sguardo rivolto ai Paesi del Mediterraneo e alla Russia, dà molto fastidio a chi su quelle rotte voleva costruire la sua fortuna politica ed economica. Berlusconi ha rotto gli schemi. Tempo fa a Washington ho avuto la fortuna e l'onore di partecipare a un convegno sulle Nuove Relazioni Transatlantiche organizzato dalla Fondazione Magna Carta. Al mio fianco, nelle vesti di co-speaker, c'era Victoria Nuland, ex ambasciatrice americana presso la Nato, ricordo bene il suo stupore - e quello degli amici dell'American Enterprise Institute - nell'ascoltare la mia analisi sulla nuova politica estera del governo Berlusconi. Eravamo nel settembre del 2008, sembra un secolo fa. Eppure quei temi costituiscono oggi il cuore dell'agenda internazionale, il nocciolo duro dei cables dell'ambasciata americana a Roma riguardanti le relazioni tra Italia e Stati Uniti rivelati da Wikileaks. Qui è la «ciccia» vera della politica estera, non le opinionipiù o meno colorite sul Berlusconi-Zelig, il suo essere imprevedibile outsider e non certo inappuntabile uomo da cocktail diplomatico con la erre moscia. Berlusconi è stato - ed è ancora - una variabile indipendente del panorama internazionale, il primo statista italiano che dopo Bettino Craxi ha cominciato anche in Italia a demolire «l'altro muro», quello issato a Yalta dalle nazioni vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, il patto che divideva il mondo in sfere di influenza e dettava le mosse dei pezzi sulla scacchiera internazionale. Tra il 1974 e il 1989 caddero cinque grandi regimi autoritari, quello fu il primo colpo allo schema post-guerra ed è molto istruttivo rileggere le tappe e le ragioni di quel crollo attraverso le pagine de «La Terza Ondata» di Samuel P. Huntington per comprendere cosa ci attende domani. Un altro pezzo di quella creatura artificiale sta andando oggi in frantumi con i nuovi movimenti di «democratizzazione» (scrivo questa parola con la dovuta prudenza) che stanno nascendo in Nord Africa e nel Medio Oriente. Chiunque abbia un po' di confidenza con le carte geografiche può divertirsi a osservare i confini di quei Paesi: sono tracciati con il righello. L'Africa e il Medio Oriente sono frutto di un disegno a tavolino fatto dall'Occidente che di volta in volta - finita l'era del colonialismo - appoggiava o subiva il dittatore di turno. Quei Paesi sconnessi dal sistema di comunicazioni, vere e proprie isole, con lo sviluppo delle tecnologie, l'emergere della fame di energia e di movimenti trasnazionali sempre più forti, hanno fatto implodere lo schema originario e siamo passati dall'ordine al disordine mondiale. L'esplosione demografica e la connessione a internet di queste masse di giovani hanno improvvisamente accelerato il cambiamento e la rivoluzione. Un libro notevole, «The Pentagon's New Map», scritto da Thomas P.M. Barnett nel 2004 illustrava bene questo tema: il mondo non connesso, non inserito a pieno nella globalizzazione, non integrato, costituisce per gli Stati Uniti e la comunità internazionale fonte di instabilità, guerra e impegno militare. Quella mappa è una guida perfetta per capire che cosa accadrà domani. Quanto al ruolo della rete nelle rivoluzioni, la sua importanza è chiara - altrimenti i dittatori non si preoccuperebbero do oscurarla - ma non bisogna sopravalutarne la potenza reale. In Egitto non porterà la democrazia (comanda l'esercito), in Libia non sarà sufficiente a far cadere il regime di Gheddafi e in Tunisia non sarà il motore delle riforme. Gli entusiasti della rivoluzione internettiana sono avvisati e se vogliono saperne di più possono leggere un libro intitolato «The Net Delusion», dove Evgeny Morozov demolisce il credo degli utopisti digitali. Sono questi i temi reali dell'agenda internazionale e del dibattito accademico sulla «quarta ondata» dei movimenti di democratizzazione. Per questo leggere certi articoli del Financial Times mette di buon umore, significa che in fondo certi vizi della nostra stampa e molte frescacce dei presunti opinion maker de noantri hanno fatto strada. L'Italia ha molti problemi, ma per fortuna degli italiani e con buona pace dei pensatori da salotto è ancora un Paese fondatore dell'Europa dove lo scettro - magistratura permettendo - è ancora in mano al popolo che vota e non ha bisogno di scendere in piazza a chiedere pane e democrazia.  

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