Unità d'Italia. Io la festeggio
Caro direttore, ti chiedo lo spazio, e soprattutto il piacere, di poter lanciare un appello semplice e chiaro: «Il 17 marzo io festeggio l’unità d’Italia». Chiedo ai lettori di firmarlo e sostenerlo, come un’allegra rivoluzione contro la tristezza di ministri, governatori e imprenditori che ancora tentennano. Tentenna il ministro Roberto Calderoli, che, nonostante lo stipendio e gli onorevoli privilegi di cui gode, dice che non ci sarebbero fondi per celebrare il compleanno della patria. Faccia dimezzare fondi e privilegi all’onorevole casta a cui appartiene, e poi ne riparliamo. Tentenna persino il presidente del comitato celebrativo, Giuliano Amato, che concesse al governatore di Bolzano, Luis Durnwalder, l’abolizione del tradizionale omaggio delle Forze Armate al monumento alla Vittoria il 4 novembre, e che oggi, da pesce in barile, scrive: «Tocca alla politica, non a me, valutare se sia meglio, data l’importanza e la solennità dell’occasione, che la si renda festiva a tutti gli effetti». Si rifiuta perfino di partecipare alle celebrazioni Durnwalder, sputando sul ricchissimo piatto che la Repubblica italiana, a cui ha giurato fedeltà, gli serve ogni anno da più di sessant’anni per valorizzare l’economia e la convivenza dell’Alto Adige. Tentenna l’imprenditrice Emma Marcegaglia, per le presunte perdite che le aziende potrebbero subire. Ricorda l’atteggiamento di quei genitori che non c’erano mai quando i loro figli soffiavano sulle candeline della torta, perché la carriera veniva prima delle cose che contano nella vita. E poi vivono di rimorsi, i genitori e i figli. Ma io non ho rimorsi per l’Italia, dove sono arrivato tredicenne dall’Uruguay nel 1973, dopo averla sognata attraverso i racconti di mio padre mantovano. In Italia mi sono formato, ho creato la mia famiglia, ho coltivato l’amore per la lingua che è il meraviglioso segreto per poter esercitare bene il nostro mestiere di giornalisti. La mia gratitudine, sono sicuro, è pari a quella di milioni di cittadini nati in Italia o arrivati dall’estero, italiani dei due mondi o stranieri, ognuno dei quali ha la sua buona ragione per poter dire, una volta ogni 150 anni, che l’Italia è bella, nonostante le indignazioni che ogni giorno ci procura la sua classe dirigente. Quasi un doloroso pegno quotidiano in cambio della fortuna di vivere qui. Ma siamo maturi abbastanza per saper distinguere fra Stato vecchio e nazione moderna, per essere nemici della mafia e della corruzione e felici di Dante e della Ferrari, di Verdi e di Riccardo Muti, di Leonardo e di Marconi, di tutti quelli che da Roma antica al Rinascimento, passando per Cristoforo Colombo, ci hanno donato una nazione solare e universale. Tant’è che la Chiesa cattolica ha a Roma e non altrove la sua sede e la sua fede. Tant’è che la Chiesa cattolica ha a Roma e non altrove la sua sede e la sua fede. «Il 17 marzo io festeggio l’unità d’Italia» con animo commosso per quanti, donne e uomini, prima e dopo Garibaldi, hanno coronato un sogno che noi, oggi, dobbiamo rendere ancora più attraente e per forza di cose nuovo e diverso, perché ogni generazione ha diritto di immaginare e costruire la sua Italia del cuore. Pulita. È arrivato il momento di chiederci, come si chiedeva qualcuno nell’America che sa guardare lontano, non già che cosa possa fare l’Italia per me, ma che cosa possa fare io per l’Italia. Intanto posso e voglio festeggiarla. Sarà un atto d’amore e di rettitudine, da cittadino del mondo che apprezza anche le leggi del suo Paese, cominciando dalla straordinaria Costituzione. È la Divina Commedia del tempo nostro, il tempo dell’arida politica. Ma è la prova che in Italia c’è sempre una speranza da vivere e condividere.