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E' Tremonti il premier-ombra

Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti

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L'Italia ha un premier-ombra, e si chiama Giulio Tremonti. È bene prendere atto di questa situazione e capirne retroscena e sviluppi. Che possono essere virtuosi per il centrodestra, a cominciare dai diretti interessati: il premier-ombra e quello in carica, Silvio Berlusconi. Oppure potrebbero rivelarsi catastrofici se il ministro e il Cavaliere si faranno la guerra, si lasceranno intrappolare da invidie e intrighi di palazzo, se cederanno il primo alla sindrome di Bruto, il secondo a quella di Cesare. Vediamo i fatti. Tremonti ha da mesi nelle mani il negoziato sulla nuova governance europea con Germania e Francia. La trattativa dovrà essere chiusa dai ministri finanziari a metà marzo, ed entro aprile i capi di governo saranno chiamati a votare il nuovo trattato. L'approvazione dovrà avvenire all'unanimità, e quindi anche con il sì di Berlusconi. Che però difficilmente potrà essere un veto: specie se, come pare, l'Italia dovesse trovarsi sola assieme alla Grecia. E tanto più con un Cavaliere indebolito al tavolo europeo dal tormentone giudiziario. La logica conseguenza sarebbe che al nostro paese verrebbe detto un arrivederci e grazie: in fondo anche la Gran Bretagna è fuori dall'euro, con ben altra potenza finanziaria però. E dunque i nostri titoli pubblici non resisterebbero un attimo alla speculazione. Per questo è interesse di palazzo Chigi agire in coordinamento con il ministro dell'Economia, anche se portasse a casa un risultato a doppia faccia. Da una parte una serie di misure per la competitività e la crescita – già annunciate dalla Germania - e che l'Italia una volta tanto ha in parte già realizzate. A cominciare dalle pensioni, che da noi sono state collegate all'aspettativa di vita con un tratto di penna e senza un'ora di sciopero, mentre in Francia e altrove hanno scatenato la piazza. O dal divieto di indicizzare gli stipendi all'inflazione, un tabù che l'Italia ha eliminato da anni ma che resiste in molte parti d'Europa, dall'Austria al Belgio alla Scandinavia. L'altra faccia sarà però probabilmente costituita dal rientro forzoso dal debito pubblico. L'ipotesi che rimbalza da Bruxelles prevede che i paesi che sforano il 60% di rapporto tra debito e Pil riducano per tre anni del 5% la quota eccedente. Al termine del triennio e in caso di inadempienza scatterebbero sanzioni automatiche: anche queste da sottoporre a giudizio collegiale in base a varie considerazioni. Che cosa significa per noi? Avendo poco meno del 120% di debito sul Pil, e quindi quasi 900 miliardi, dovremmo tagliare 42-43 miliardi l'anno. Che via via si ridurrebbero grazie alla diminuzione della massa da finanziare, ad un possibile miglioramento del rating, ad un risparmio sugli interessi su Bot e Cct, ormai pari a 80 miliardi l'anno. Come ben sa chiunque abbia un mutuo a tasso variabile, quanto più si abbatte il capitale tanto più si alleggeriscono le rate. Se questo è quanto stanno discutendo i governi europei, l'Italia potrebbe far valere fattori discrezionali, e soprattutto tre: la sostenibilità del nostro debito, bilanciato dalla ricchezza di famiglie e imprese; il fatto che sia quasi tutto in mani interne e meno esposto alla speculazione; e la buona tenuta del sistema bancario che non ha richiesto aiuti pubblici, come invece è accaduto per Francia, Germania, Olanda, e fuori dall'euro per l'Inghilterra. È per questi motivi che ieri Tremonti si è schierato con l'asse franco-tedesco, che ritiene sia meglio avere amico, ma al tempo stesso ha invitato i governi forti «e a tripla A» a spiegare bene come sia aumentato il loro debito nei tre anni di crisi, con un riferimento diretto ai sussidi dati alle banche. Un linguaggio per iniziati ma che sottintende una possibile trattativa ancora in corso. Trattativa dalla quale palazzo Chigi appare invece piuttosto assente, a differenza di Angela Merkel, Nicolas Sarkozy, ma anche leader europei minori. Sappiamo che il Cavaliere ha altri problemi. Però ha il dovere di non perdere di vista il tavolo europeo. Perché quando, tra non molto, ci dovesse essere presentato un conto salato, l'ultima cosa che potremmo permetterci è arrivarci in ordine sparso. La sinistra accuserebbe il centrodestra di aver camuffato la realtà: ed avrebbe torto perché il debito pubblico è ben noto a tutti. A sua volta però il governo, se ancora sarà in piedi, dovrà mostrarsi all'altezza della situazione. Il che significa disporre di una ricetta per le richieste europee, ed essere unito. Diversamente di fronte a una tegola di quelle dimensioni la sola via d'uscita sarebbero le elezioni o un'ammucchiata nazionale, che stavolta oltre all'antiberlusconismo avrebbe anche l'alibi dell'emergenza economica: il Cavaliere ne uscirebbe triturato. Ma non solo. Bisognerebbe poi decidere come trovare i miliardi necessari, e le avvisaglie di queste settimane sono eloquenti. L'opposizione punterebbe dritta su tasse e patrimoniale; ed il centrodestra? Ovviamente anche Tremonti dovrebbe spiegare molte cose, ma è l'unico da quella parte che ha mostrato finora una logica. Ruvida e sgradevole, ma coerente. Compreso quando, pochi giorni fa, ha platealmente snobbato l'iniziativa berlusconiana di «frustare l'economia», magari per proporre una diversa agenda a un'opinione pubblica stremata dal Rubygate. Il ministro ha nuovamente chiuso la cassa, acconsentendo solo a «riforme a costo zero» o al riciclaggio di vecchi progetti. Ma come si può tirar fuori sull'unghia qualche decina di miliardi per finanziare la crescita quando non sappiamo da quanti piani cadremo tra due mesi? La ricetta tremontiana non prevede tasse e patrimoniali, ma ancora risparmi, dismissioni pubbliche, qualche altro taglio. Ecco perché parliamo di premier-ombra: perché la vera partita è questa, ed è Tremonti a doversela, e forse potersela, giocare. Così come ha finalmente deciso di mettere la faccia sulla candidatura di Mario Draghi alla Bce. E come si è inventato il tour Roma-Reggio Calabria assieme ai leader di Cisl e Uil. Iniziativa nazionalpopolare ma che ha il pregio di far vedere che il governo non può contare balle sulle infrastrutture al Sud. Se su tutto questo Tremonti agisce anche per conto di Berlusconi, comprendendo che il tempo lavora per lui, ed il Cavaliere lo accetta o fa buon viso, il centrodestra avrà ancora una chance. E magari al Cavaliere, resistendo al governo, può dischiudersi una strategia di uscita anche sul fronte giudiziario. Se Tremonti cede alla tentazione di imitare Gianfranco Fini, approfittare della debolezza del capo e farsi adottare dalla sinistra, finirà ingloriosamente proprio come il presidente della Camera: senza avvenire politico, e quanto alla sua dottrina economica sarà fatta a polpette dal fronte delle tasse che ha già schierato le artiglierie. La sua brillante carriera si interromperà prematuramente, anche se in maniera meno traumatica di Berlusconi.

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