Il vendolismo postmoderno
Nella confusione poco creativa che agita la nostra politica, nella mela morsicata del dibattito pubblico, Nichi Vendola s’è preso uno spicchio succoso, già adesso definibile vendolismo. Che sia una novità è chiaro, tutto sta a capirne i confini e la forma. Per ora sappiamo già che si tratta di un piccolo prodigio comunicativo su cui poco si sarebbe scommesso non più di un paio d'anni fa, quando la giunta regionale del governatore pugliese era stata schiaffeggiata a colpi di scandali sulla Sanità. Eppure «Nichi» ha piegato la testa e s'è buttato nella battaglia per la sopravvivenza politica, e finora s'è conquistato le sue ragioni. Tempo fa, proprio su questo giornale, era la fine del 2009, prima ancora che il vendolismo esplodesse nella sua forza simbolica, dopo aver moderato un dibattito leccese con Vendola in una convention libraria per l'occasione elettrizzata da un'atmosfera da concerto rock, avevo formulato un'avvertenza per analizzare il carisma particolarissimo di «Nichi»: sarebbe stato un problema, una sfida o un'opportunità, per gli attuali alleati e i futuri avversari. Un carisma che calza sandali francescani e rielabora il vecchio operaismo nelle parole di un cristianesimo secolarizzato nella forma solidarista dell'impegno per il «prossimo tuo», digeribile tanto ai laici quanto ai cattolici sospettosi delle origini e delle abitudini di vita di Vendola. C'è un tratto della sua condotta quotidiana e della sua strategia politica, piuttosto inusuale per un militante dell'ex sinistra radicale, che caratterizza «Nichi» e ne fa compiutamente un italianissimo leader postmoderno: l'estrema personalizzazione della sua politica, che letteralmente si incarna nel corpo di Vendola, principio e fine del messaggio, contenuto e contenitore del manifesto politico. È un passaggio decisivo e a suo modo rivoluzionario, perché mai prima d'ora la personalizzazione e il leader-centrismo avevano conquistato un ruolo così centrale nei partiti del centrosinistra. Nemmeno con Prodi, che veniva infatti presentato, come sottolineavano le colonne sonore di Ligabue e ancor prima di Fossati scelte per le campagne elettorali del 1996 e del 2006, nella forma del «mediano» o del mero interprete della «canzone popolare» progressista: uno a cui veniva affidata temporaneamente una missione collettiva, un terminale importante ma non insostituibile del progetto chiamato «Ulivo». E invece «Nichi», nella visione del vendolismo, è il leader necessario, sufficiente e imprescindibile: la «fabbrica» è di «Nichi», sua è solo sua, non di un vattelappesca qualsiasi. In questo atteggiamento (che da sinistra, in altri tempi o altri contesti, si sarebbe volentieri definito «deriva») personalistico, Vendola ha abbondantemente superato anche il Veltroni più spregiudicato. Dove Veltroni costruiva un apparato di simboli e riferimenti culturali – Kennedy, Jovanotti, il Lingotto, don Milani e così via – e un cotè di intellettuali e uomini di spettacolo per fortificare il suo individualismo leaderistico, circondandolo di una «narrazione», Vendola decide di far da sé la sua narrazione, ne diventa il soggetto narrante e l'oggetto narrato. I sandali francescani acquistano senso solo se li calza «Nichi», altrimenti ritornano a essere burocratici scarponcini da funzionario di partito. Ma il tratto più eclatante della personalizzazione vendoliana è l'uso costante, reiterato, ossessivo del nome proprio, una caratteristica che accomuna tutte le personalità della seconda Repubblica e il modo in cui vengono presentate sui media, abituati ormai a dare del «tu» ai vari Silvio, Gianfry, Pier, Max, Walter eccetera. In questa dimensione, «Nichi» diventa un brand spendibile ovunque, nella «fabbrica» in cui «Nichi» confenzione sartorialmente sulla sua silhouette il messaggio politico vendolista, nei libri e nelle interviste a innesco autobiografico, nella corporeizzazione della comunicazione politica. Il parallelo con Berlusconi e il berlusconismo è scontato: semmai, rispetto alla leadership tradizionale e verticale berlusconiana, Vendola appare una specie di berlusconismo 2.0, ibridato con il linguaggio orizzontale dei social network, una leadership «empatica» che, quando lo chiama a raccolta, non si mette davanti ma in mezzo al «suo» popolo. Il resto – le parole d'ordine, le categorie, il linguaggio, il bacino elettorale – sono prodotto e conseguenza del leader, e non suo presupposto. Il carisma nella sua dimensione autentica ha messo le tende anche a sinistra, e forse nel posto meno adatto, visto che «Nichi» parte dalle periferie dell'ex radicalismo e, per ora, come unico effetto lavora ai fianchi l'immagine della classe dirigente democrat. Certo è che i media hanno trovato un personaggio. La politica nazionale, si vedrà.