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Ultimi giorni come a Pompei

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Siamo davvero agli «ultimi giorni di Pompei» del sistema politico. Ultimi giorni che potrebbero durare settimane, mesi, persino qualche anno in un'agonia lentissima e in apparenza irreversibile. Ma che, comunque, salvo imprevisti e attualmente imprevedibili avvenimenti, saranno i sussulti finali del sistema. Non c'entrano affatto - o c'entrano poco - nel dissesto politico-istituzionale del paese le notti di Arcore e i comportamenti sessuali, veri o presunti, di Silvio Berlusconi. Come del resto dimostrano i sondaggi di opinione che non indicano una sostanziale flessione nelle intenzioni di voto per i partiti della coalizione di maggioranza. C'entrano, piuttosto, altri fatti. In primo luogo, il logoramento di un sistema istituzionale nato all'insegna del compromesso ideologico, in nome dell'antifascismo, fra le forze politiche costituenti: un compromesso ideologico divenuto obsoleto e improponibile dopo il crollo del comunismo e la fine delle ideologie. In secondo luogo, il lento ma continuo e inesorabile processo degenerativo delle istituzioni tradottosi in una progressiva alterazione del complesso e delicato equilibrio fra i poteri dello Stato. Il tutto condito dalla crescita esponenziale dello storico e qualunquistico distacco dei cittadini comuni da una classe politica percepita come lontana dagli interessi collettivi. Un distacco pericoloso perché rischia di alimentare quella antropologica tendenza all'anarchismo, che Giuseppe Prezzolini seppe compendiare, nel suo Codice della vita italiana, in una battuta efficace, quando scrisse che «L'Italia non è democratica né aristocratica. È anarchica».  L'immagine della politica e delle istituzioni italiane quale si presenta agli occhi di qualsiasi osservatore è sconfortante. La conflittualità fra i poteri dello Stato è divenuta un fenomeno strutturale. Le istituzioni stanno perdendo credibilità e, sempre più, esorbitano dai rispettivi confini di competenza. Il rispetto delle regole, ovvero il cosiddetto «galateo istituzionale», è stato ormai, nella migliore delle ipotesi, confinato in una soffitta come nel vecchio salotto di nonna Speranza di gozzaniana memoria erano state riposte tante «buone cose di pessimo gusto». Gli esempi che si potrebbero fare sono moltissimi. Riguardano tutte le istituzioni, senza distinzione. Alcuni casi - si pensi, a titolo esemplificativo alla permanenza di Gianfranco Fini nella carica di Presidente della Camera - superano, diciamolo pure!, ogni limite di decenza istituzionale. Ma non basta. I contrasti continui fra il potere esecutivo, il potere legislativo e il potere giudiziario sono ormai all'ordine del giorno e danno l'impressione di un paese spinto con una pervicace incoscienza verso l'orlo del baratro istituzionale. Quale credibilità può avere una magistratura che spende cifre da capogiro e impiega risorse umane enormi per cercare di eliminare, attraverso la via giudiziaria, il presidente del Consiglio? Quale credibilità può avere una Corte Costituzionale che smentisce se stessa, emana sentenze che ne riflettono la composizione politica e abolisce leggi dello Stato (o loro parti) non gradite a settori politicizzati della Magistratura trasformandosi essa stessa, in maniera surrettizia, in potere legislativo? Quale credibilità può avere un Consiglio Superiore della Magistratura che ormai interviene direttamente sul processo di formazione delle leggi dando indicazioni precise e che è diventato sempre più uno strumento corporativo di autotutela dei magistrati? Si potrebbe proseguire, a lungo. In questa situazione, solo il Capo dello Stato sembra preoccuparsi realmente dello scollamento generale del paese e del rischio di un corto circuito istituzionale che porterebbe al crollo finale dell'intero sistema politico.   Il Presidente della Repubblica è diventato un punto di riferimento: paradossalmente, però, lo è diventato, proprio attraverso una interpretazione estensiva e, per così dire, interventista dei suoi poteri e delle sue prerogative. Ma anche questo è un sintomo che siamo giunti agli «ultimi giorni di Pompei». Ed è una indicazione del fatto che, per evitare il disastro, non c'è altra strada che quella di accelerare il processo riformatore di un sistema politico e istituzionale troppo legato alle sue origini e non più in grado di rispondere alle nuove sfide di un mondo postideologico.

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