L’esecutivo c’è. Subito le riforme
Votare adesso, ha detto Silvio Berlusconi, sarebbe un danno per il Paese. Sicuro, ha ragione, ma qualche volta occorre scegliere fra due mali, essendo saggio orientarsi verso il minore. Se fosse possibile far andare avanti la legislatura, e governare secondo quanto la volontà popolare ha stabilito, sarebbe un bene. Non lo è ignorare la realtà: l’incredibile pasticcio del decreto legge sul federalismo, destinato a rimpiazzare una legge delega che non ha perso alcuna sua efficacia a causa di un voto consultivo, la cui sostanza il governo avrebbe potuto radicalmente ignorare, tenuto conto che il testo respinto è diverso da quello presentato solo perché modificato in modo da ottenere il consenso degli amministratori locali del partito democratico (Sergio Chiamparino in testa), è figlio della mancata applicazione dei regolamenti parlamentari e, quindi, della sostituzione dei commissari dopo la secessione finiana, a sua volta incarnazione di una rottura politica senza conclusione razionale, sicché il presidente della Camera lo si sarebbe dovuto deporre, in assenza di sue dimissioni. Doveva essere mandato via per ragioni politiche, mica per la casa monegasca. In queste condizioni, è possibile andare avanti? Il recente voto della Camera dei Deputati, con il quale sono state restituite alla procura di Milano le carte relative ad una richiesta di perquisizione, segnala il ritorno della maggioranza assoluta. Peccato che anche nelle passate legislature tale maggioranza c’era quando si trattava di votare leggi particolari e reggere lo scontro con gli avversari, ma mancava quando si doveva porre mano a riforme vitali, compresa quella della giustizia, che riguardano tutti gli italiani. Siamo di nuovo in quella condizione? Il rimpasto, infine, può ben essere utilizzato per rinvigorire il governo (lo si fa in tutti i sistemi democratici), ma funziona poco se serve da collante per maggioranze che, subito dopo, non nascondono più l’eterogeneità della composizione e dei fini. Dunque, interrompere la legislatura e andare al voto sarebbe un danno, ma perché la frase abbia un senso accettabile deve essere completata: si va avanti e chi guida il governo si assume la responsabilità di arrivare alla fine della legislatura. Già, perché votare fra un po’ sarebbe peggio. Ora (lo si sarebbe già dovuto fare), o mai più. Ad aprile comincia la sessione di bilancio europea, in quella sede i nostri conti pubblici saranno collegialmente passati al setaccio. Si va incontro a una stagione di più alti tassi d’interesse e il nostro debito pubblico è abbastanza grande da potere essere buttato fuori di casa. Per affrontare queste sfide sono necessarie riforme strutturali e di grande portata, che liberalizzino, alleggeriscano lo Stato, comprimano la spesa pubblica ed escludano qualsiasi aumento, per qualsiasi via, della già insopportabile pressione fiscale. Votare oggi non è una cura di bellezza, ma votare dopo avere fallito questi passaggi sarebbe una tragedia. Sia per il tempo perso che per le conseguenze, destinate a durare. Le alchimie della nostra politica seguono regole non sempre razionali, così un governo con appena un voto di maggioranza può dimostrarsi più solido di uno con maggioranze travolgenti. Ma può anche capitare che ciascuna delle componenti si senta determinante per il tutto, al punto che l’unico modo per non cadere è non muoversi. È vero che Oscar Wilde sosteneva che fra due mali preferiva non sceglierne nessuno, ma è anche vero che quello è solo un aforisma. La realtà non si risolve in una battuta.