Il disprezzo di Saviano
L'incipit è talmente forte da suonare grottesco: «L'Italia oggi non è un Paese libero». Parola di Roberto Saviano. L'ha detto ieri al Palasharp di Milano e l'ha anticipato su "Repubblica". Sarebbe facile obiettare che se così fosse lui non avrebbe la possibilità di scriverlo. In verità, non risulta che sia mai stato coartato. Non rende buon servigio alla verità Saviano, descrivendo complotti inesistenti al puro scopo di gettare ombre sinistre non solo sul governo o sul sistema politico, ma sull'Italia, entità molto più complessa. Dalla sue parole viene fuori una nazione soggiogata dal vizio e dalla brutalità, dove vige il diritto alla pratica del dissenso, da lui pure riconosciuto, ma ha però un prezzo troppo alto: "quello di essere pronti a sottoporsi ai veleni della macchina del fango". Se anche fosse - e così non è poiché scambiare la lotta politica con l'avvelenamento delle coscienze è una falsificazione, mentre la violenza di certe trasmissioni televisive e l'accanimento di alcuni giornali contro il centrodestra è oggettivamente devastante - Saviano che è molto giovane dovrebbe documentarsi su quanto è costata la libertà che ragazzi innocenti quando lui non era ancora nato o era appena in fasce, cercavano di conquistarsi chiedendo di poter esporre le loro idee così come chiede lui. Non era il fango a ricoprirli, ma il piombo a farli tacere; il piombo dei loro coetanei. E neppure allora si diceva che l'Italia non era un Paese libero. Le parole sono pietre, come sa bene Saviano. E dovrebbe ricordarsene quando sostiene che «sembriamo condannati a dividerci su ogni cosa». Ma chi ha cominciato questo gioco al massacro? Non certo la parte politica che ha vinto ripetutamente le elezioni per vedersi negati i suffragi ottenuti; anzi costretta a constatare che l'Italia che le aveva consegnato il potere di governare era un'Italia di serie B, inaccettabile, inguardabile, moralmente inferiore. Rientra negli usi e nei costumi delle "democrazie mafiose" stabilire chi può dissentire, chi si deve emarginare culturalmente, chi deve essere umiliato socialmente. E se accade che un premier indicato dal popolo non bussi alle porte delle oligarchie finanziarie, mediatiche e giudiziarie per concertare la governabilità o contrattare la pace sociale, legittimato soltanto dal popolo a cui deve rispondere, eccolo rappresentare come il nemico che azione la macchina del fango. È dal 1994 che va avanti così. Aveva tredici anni Saviano e forse leggeva ancora i fumetti, comprensibilmente. I giornali sui quali oggi scrive, raccontavano che in Italia erano calati gli Hyksos, che un brianzolo intraprendente aveva sconfitto una portentosa "macchina da guerra" (fabbricata da freschi post-comunisti) con un partito di plastica, che la gente lo aveva votato soltanto perché inebetita dalle sue televisioni. È liberale tutto questo per Saviano? E l'accusa rivolta allo stesso tycoon di aver "sdoganato" nientedimeno che i "fascisti", immettendo nel circuito della democrazia decidente una porzione considerevole di elettori che non dovevano avere rappresentanza, oggi la giudica degna di un paese civile? La retorica del Bene e del Male applicata alla vasta operazione di delegittimazione di chi governa in nome del popolo e non contro il popolo è l'espediente delle oligarchie onnivore che disprezzano i riti della formazione del consenso quando non coincidono con i loro interessi. Se Saviano imparerà a conoscerle, le eviterà.