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Le anomalie del presidente Fini

Gianfranco Fini

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Il già nutrito elenco di anomalie della presidenza finiana della Camera si è allungato con un commento incredibile al pareggio con il quale si è conclusa nella cosiddetta bicameralina la votazione per il parere, peraltro obbligatorio ma non vincolante, sul decreto legislativo del federalismo municipale. La natura bicamerale della commissione, composta da deputati e senatori nominati dai presidenti dei due rami del Parlamento, avrebbe dovuto consigliare a Gianfranco Fini di consultarsi con il suo omologo di Palazzo Madama, Renato Schifani, prima di pronunciarsi sul 15 a 15 della partita. Glielo avrebbero dovuto suggerire ragioni, diciamo così, di galateo istituzionale, tanto più a causa dei dubbi sorti sulla stessa legittimità della composizione della commissione, formata su designazione dei gruppi parlamentari ben prima che nascessero quelli che Fini ha voluto creare dopo la rottura intervenuta con il presidente del Consiglio e il Pdl. Sino a quando i gruppi finiani sono rimasti, sia pure polemicamente, nella maggioranza la composizione di quella commissione poteva anche risultare compatibile con il principio della proporzionalità stabilito dalla legge istitutiva. Ma quando i finiani hanno attraversato il Rubicone, prima ritirandosi dal governo, poi reclamando l'apertura di una crisi extraparlamentare con la richiesta delle dimissioni del presidente del Consiglio, infine passando all'opposizione con tanto di mozione di sfiducia alla Camera, i rapporti di forza nella commissione non sono più risultati equilibrati. Al presidente della «bicameralina», Enrico La Loggia, appaiono francamente e giustamente «troppi» quattro commissari su trenta di appartenenza al terzo polo, dove Fini ha deciso di accasarsi preferendo passare da numero due di Silvio Berlusconi a numero due di Pier Ferdinando Casini, o numero tre, dopo Francesco Rutelli. Ed è stato proprio il no del senatore finiano Mario Baldassarri a determinare il pareggio nella votazione di ieri dei bicameralini. Se solo egli avesse avvertito l'opportunità di astenersi per lo squilibrio creatosi nella commissione bicamerale dopo il passaggio dei finiani all'opposizione, si sarebbe evitato il pareggio. E con il pareggio si sarebbe evitata la gara subito apertasi sugli specchi dei regolamenti parlamentari per valutarne gli effetti, cioè per sostenere che il parere è stato negativo o è soltanto mancato. È una gara che farà felici gli specialisti della materia, non certo la gente comune. La situazione è «senza precedenti», ha sentenziato Fini con involontario umorismo, dimenticando che senza precedenti è prima di tutto la sua presidenza alla Camera, sopravvissuta al suo cambio di ruolo: da terza carica dello Stato, naturalmente e necessariamente neutra, a capo-fazione, anzi a capo di un partito alla cui gestazione egli partecipa da mesi con viaggi e comizi usando, ma forse sarebbe meglio dire abusando della sua visibilità istituzionale. Senza precedenti è anche la distinzione che Fini ha cercato di fare, sempre commentando il 15 a 15 della commissione bicamerale, tra «voto politico», che sarebbe mancato o sarebbe secondario, e «valutazione di merito», che sarebbe prevalente.   E, secondo lui, dovrebbe forse impedire o sconsigliare al governo di appellarsi alle aule di Montecitorio e del Senato, dove esso gode di una sicura maggioranza. Si può ben dire a questo punto che ciò che ha perso in autorevolezza, questa presidenza della Camera può solo guadagnare in stravaganza.  

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