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Pericoloso mandar via Mubarak

L'esercito in strada al Cairo, Egitto

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Pericolosa la scelta della Segreteria di Stato americana di «suggerire» a Hosni Mubarak di pensare se non sia davvero il caso di preparare i bagagli. Lo sostiene Barry Rubin, Senior Fellow al Foreign Policy Research Institute (Fpri) di Filadelfia direttore del Global Research in International Affairs Center (Gloria) istituito all'Interdisciplinary Center, un college di Herzliya, in Isra. Il rischio è infatti quello di ripetere gli errori del 1979, quando Mohammad Reza Pahlavi fu cacciato dall'Iran. Rubin vi ha scritto un libro intero, Paved with Good Intentions: The American Experience and Iran (Penguin, New York 2981). All'epoca Washington sostenne il governo chiedendo al contempo riforme. «Lo scià - osserva oggi Rubin in un rapporto del Fpri intitolato Egypt: What the U.S. Should Do - non ordinò la repressione in parte poiché non appoggiato dagli Usa. La rivoluzione crebbe e il regime cadde. Il risultato non fu affatto buono». Tutto per leggerezza, «gl'islamisti che governano un Paese, che ridere!». Ora, tutti sanno che il regime di Mubarak è «basato su quello che governa l'Egitto dal mattino del 23 luglio 1952, vale a dire «una dittatura parecchio intrisa di corruzione e di repressione», ma, osserva l'analista americano, non è un buon motivo per ripetere gli errori del passato. Perché oggi «in Egitto non esistono gruppi moderati organizzati. Persino quella che in passato è stata la più importante di queste organizzazioni, il movimento Kifaya, è stata espropriato dai Fratelli Musulmani. Dal 2007 ne è leader Abdel Wahhab al-Messiri, un ex membro della Fratellanza Musulmana e un virulento antisemita». E anche il leader della ventata riformista odierna, Muhammad el-Baradei, dice «che se divenisse presidente riconoscerebbe il governo di Hamas nella Striscia di Gaza, mettendo fine a ogni sanzione contro di esso». Ciò non significa, precisa Rubin, «che in Egitto non vi siano brave persone moderate e favorevoli alla democrazia, ma vuol dire che contano su poco potere, poco denaro e poca organizzazione. L'Egitto è di fatto l'unico Paese arabo in cui molti dei riformisti si sono rivolti agl'islamisti ritenendo, e sbagliando completamente, di poterli controllare e dominare una volta che l'alleanza abbia ottenuto il potere». Lo spettro di un futuro jihadista per l'Egitto divide peraltro i commentatori. Qualcuno lo esclude sulla base del fatto che nella «piazza» de Il Cairo non se ne vedono. Altri pensano l'opposto, sostenendo che solo gl'islamisti hanno strategia e quadri. L'analisi di Rubin va oltre. Teme soprattutto un Egitto post-Mubarak che per frenare l'islamismo possa chiudersi nell'autarchia. «Un governo nazionalista di marca populista e radicale, pur di per sé pochissimo venato di toni islamisti, potrebbe riaccendere il conflitto arabo-israeliano e costare decine di migliaia di vite umane». Infatti, per durare, un regime sostanzialmente solidale con quello che governa da 60 anni, e che però scegliesse di scaricare Mubarak utilizzando magari la politica del bastone e della carota con la «piazza», finirebbe per allontanarsi dalla tradizionale politica filoccidentale del Paese (nonostante non siano mai state rose e fiori), spingendo, fosse pure per mere ragioni demagogiche, i tasti dell'antiamericanismo e dell'anti-israelismo. Morale della favola? Turiamoci il naso, ma non resta che il vecchio Mubarak. Epperò la Casa Bianca qui naviga a vista. Probabilissimo, teme Rubin, il naufragio.

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