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Suicidi come bonzi non come kamikaze

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LaRivoluzione dei gelsomini viaggia su internet, si organizza sui social network e si concretizza nelle strade della capitali arabe. Vacillano i governi cosiddetti moderati. Ventennali regimi dinastici che poco hanno fatto per il popolo e tanto per le loro cassaforti. Le contraddizioni stanno esplodendo. Algeria, ricca di idrocarburi e minacciata dalla guerriglia jihadista è attanagliata dalla crisi che colpisce soprattutto i ceti poveri. In Tunisia la rivolta è nata dalla borghesia. In Egitto sono i ceti poveri e gli studenti che guidano le proteste anti Mubarak. Il Cairo appena tre anni fa è stato teatro di violente sommosse per i rincari del pane e ora che la zona rossa dei rialzi dell'inflazione è alle porte non è stato sufficiente acquistare mucche da Kenya ed Etiopia per fermare le nuove proteste. La gente è scesa in piazza e non ha intenzione di abbandonarla. Da Orano a Suez soffia il vento del cambiamento. Folate di libertà passano il Sinai e arrivano ad Amman dove già sono previste manifestazioni che l'illuminato re Abdullah attende con palese timore. Situazione allarmante per le Cancellerie occidentali che temono il collasso di questi Paesi che finora hanno fatto argine al terrorismo fondamentalista. Ma la forza di queste «rivoluzioni» di pietre contro fucili è l'aver lasciato fuori i jihadisti. In Algeria dove Al Qaeda del Maghreb è forte, la piazza ha respinto il sostegno proposto con un video messaggio. In Egitto, i Fratelli Musulmani, partito di origine di un personaggio del calibro di Ayman al Zawahri, sono stati tenuti fuori dalle proteste. Ora cercano di entrarci annunciando di schierarsi con la piazza. Ma i giovani di Twitter e Facebook non li vogliono. L'anima inquieta del mondo arabo ha trovato la forza di ribellarsi senza rimanere impigliata nella ragnatela dei fondamentalisti che predicano solo odio e sangue. Senza lavoro, senza speranze i giovani delle piazze arabe hanno fatto la loro scelta: né con i regime, né con Al Qaeda. Il segnale evidente è quella scelta terribile di dare più voce alla loro protesta dandosi fuoco. Come i bonzi in Vietnam. Come Ian Palach in quella Primavera di Praga quasi snobbata dall'Occidente. Giovani arabi che ad Algeri, Sidi Bou Zid, Il Cairo e ora anche in Europa scelgono il suicidio come «martiri» testimoni del loro disagio non come kamikaze al soldo dell'ideologia jihadista. In piazza gridano «Horreya!» non «Allah u Akbar». Sul tappeto ci sono i grandi problemi economici e sociali. Il mondo arabo è segnato da povertà e disoccupazione e «i cittadini arabi hanno raggiunto un grado di rabbia senza precedenti», ha detto il segretario generale della Lega araba, Amr Moussa, cercando di metter sull'avviso i governi a non sottovalutare le istanze di queste proteste. E parlando di quanto accaduto in Tunisia con la fuga di Ben Ali, Amr Moussa ha sottolineato che «Quello che sta succedendo è uno storico punto di svolta nella vita dei tunisini. Dobbiamo guardare avanti, al futuro». «L'esempio tunisino – fa notare Amr Hamzawy del Carnegie Middle East Centre di Beirut - ha dimostrato come tutto questo possa essere cambiato dal popolo. Non è necessaria un'invasione come in Iraq. È una grande lezione per i regimi autoritari nella regione». Si guarda a Tunisi per un reale cambiamento. Un eventuale fallimento della transizione democratica in Tunisia renderebbe il costo di questo tentativo troppo elevato e consegnerebbe il testimone dell'opposizione solo ai seguaci del fondamentalismo.

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