Pinocchio e la vera impunità
Con l’ennesimo processo imbastito contro di lui, stavolta brandendo i reati addirittura di prostituzione minorile e di concussione, il presidente del Consiglio rischia tutto. Ma i suoi implacabili accusatori che cosa rischiano? Nulla, né sul piano della carriera né sul piano economico, come non hanno perso nulla gli implacabili accusatori del povero Enzo Tortora e poi quelli, fra gli altri, dell'ex ministro democristiano Calogero Mannino, assolto dopo 17 anni di autentica persecuzione giudiziaria. Sorvolo sui processi di Giulio Andreotti per non dare l'estro a Giancarlo Caselli, il più famoso ed ancora attivo dei suoi accusatori, di imbastire l'ennesima polemica, sempre rintuzzata dai legali del senatore, sull'assoluzione «parziale» dell'imputato. Al quale è stata applicata la prescrizione per i rapporti con esponenti di mafia sino al 1980. L'impunità degli inquirenti, anche di quelli più disinvolti, e dei giudici che li assecondano, è garantita sul piano della carriera da una troppo generosa gestione dei procedimenti disciplinari da parte dell'organo di «autogoverno» della Magistratura, che è il Consiglio Superiore, e sul piano economico da una legge del 1988. Che ha vanificato il risultato del referendum sulla responsabilità civile delle toghe svoltosi l'8 novembre 1987. Da quel referendum abrogativo di tre articoli del codice civile, promosso dai radicali con l'appoggio dell'allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, che si guadagnò proprio per questo un'ostilità della corporazione giudiziaria destinata a costargli moltissimo, la campagna del «no» reclamato dai magistrati uscì con le ossa letteralmente rotte. Votò contro il privilegio vantato dai magistrati l'80,20 per cento degli elettori, scossi dal supplizio giudiziario appena subìto da Tortora. Che era stato in fondo la molla dell'iniziativa referendaria assunta dai radicali. Craxi da pochi mesi non era più capo del governo, rimosso bruscamente dalla Dc di Ciriaco De Mita con il ricorso alle elezioni anticipate, ma si godette lo stesso il risultato di quel referendum con Marco Pannella. Egli tuttavia, diversamente dal leader radicale, che protestò a gran voce, accettò di subire in silenzio, senza per questo recuperarne la fiducia, una rivincita della consorteria giudiziaria. Che, sostenuta fortemente dai comunisti, strappò a tamburo battente al governo del democristiano Giovanni Goria, di cui pur era guardasigilli il socialista Giuliano Vassalli, una legge che grida semplicemente vendetta. Con l'aria di voler disciplinare il diritto del cittadino di far pagare i danni economici ai magistrati che glieli avessero a torto procurati, essa di fatto glielo precluse. L'azione di risarcimento è consentita solo «contro lo Stato», che può rivalersi sul magistrato in misura non superiore ad un terzo di un'annualità di stipendio, al netto delle trattenute fiscali. Le procedure comunque sono tali che le toghe sono rimaste sostanzialmente indenni, per quanto coperte peraltro da una polizza che ha fatto la fortuna delle compagnie d'assicurazione, vista la pratica assenza di rischio. Così stando le cose, è semplicemente grottesco che Fini e gli altri avversari di Berlusconi difendano gli inquirenti milanesi sostenendo che in caso di errore, cioè in caso di assoluzione del Cavaliere, essi pagherebbero come «capita a tutti». In questo povero Paese, dove è di moda ormai il rovescio, le bugie riescono ad avere le gambe lunghe, e i nasi cortissimi. Pinocchio ringrazia.