Moralismo "peloso"
Potrebbe essere una imposta straordinaria sui patrimoni. Potrebbe essere una tassa una tantum sui redditi più elevati. Potrebbe essere un aumento di aliquota dell’Irpef. Potrebbe essere una di queste ipotesi o un’altra ancora. Il fatto, però, è che nel programma di qualunque eventuale governo post-berlusconiano l’incremento della pressione fiscale è un punto irrinunciabile. Ed è logico che sia così. Solo la cultura liberale fa della lotta contro la fiscalità esasperata, oltre che contro l’invadenza dello Stato e della burocrazia nella vita e nelle scelte individuali, il proprio vessillo. La discesa in campo di Berlusconi e la travolgente vittoria nelle elezioni del 1994 avvennero all’insegna di un programma che aveva il fulcro nella dichiarazione di guerra contro un sistema fiscale ingiusto e oppressivo. Questo punto del programma di Forza Italia, che chiedeva la riduzione della pressione fiscale e l’introduzione di una aliquota unica, era stato scritto da un economista,Martino, che aveva guidato nel 1986, la «rivolta fiscale» culminata in una memorabile marcia antitasse che vide mobilitarsi i ceti produttivi del Paese. Ma pochi anni dopo quella storica protesta, nel 1992, il governo tecnico guidato da Amato non ebbe scrupoli a «rapinare» gli italiani con un provvedimento retroattivo che prelevava una percentuale dai conti bancari degli italiani per «un interesse di straordinario rilievo» in relazione a «una situazione di drammatica emergenza della finanza pubblica». Si sa come andarono poi le cose. Il primo governo Berlusconi non fu in grado di mantenere la promessa. E neppure i successivi. Ma il problema del fisco è sempre in testa ai pensieri dei moderati, che sono il ceto produttivo del paese. Sono i veri liberali. Sono quanti credono che la presenza oppressiva di uno Stato esoso e di una burocrazia di lacci e laccioli, sia un male. Sono coloro che lavorano e non evadono. Gli evasori appartengono a un’altra razza: sono, per dirla con Keynes, quanti credono che «sfuggire alle tasse sia diventata l’unica impresa che offra ancora un premio». Berlusconi si è fatto portavoce di questo popolo di moderati e di benpensanti, insomma di liberali. Ne ha interpretato sogni e aspettative. E ciò anche se, proprio in politica economica e fiscale, complice la crisi internazionale e le suggestioni «colbertiste» e socialiste di esponenti dei suoi stessi governi, ha fatto ben poco. Ma è proprio sul tema delle tasse, in un Paese dove si registra uno dei più elevati livelli di pressione fiscale, che si misura la differenza «antropologica» fra il centro-destra liberale, da una parte, e il centro-sinistra e la sinistra illiberale, dall’altra. Il liberale appartiene a una tradizione di pensiero «realistico». Chi liberale non è, invece, fa riferimento a una tradizione speculativa «ideologica», che si risolve in un «moralismo» peloso nei confronti del capitalismo sentina di ogni male. Questo moralismo è una manifestazione di quell’invidia che, con la scusa della perequazione, vuole punire, con lo strumento della tassazione, chi lavora, produce, guadagna e risparmia. Queste cose vanno ricordate di fronte alle sortite di Veltroni sulla necessità di intervenire con una imposizione triennale straordinaria sulle ricchezze per avviare il ripianamento del debito pubblico. E, a maggior ragione, vanno rammentate di fronte agli apprezzamenti per l’idea di una imposta patrimoniale provenienti dall’Udc e da altri settori del mondo politico. Il debito pubblico non si ripiana imponendo tasse. L’obiettivo si ottiene, semmai con la ricetta contraria: abbassandole per stimolare l’economia e la ripresa. I liberali queste cose le sanno, i socialisti di ogni colore rifiutano di sentirsele dire. E il risultato è che la «novità» per il rilancio politico dell’opposizione è la proposta di nuove tasse. E di un governo delle tasse. Dio ce ne guardi! Anche se, come diceva Franklin, a questo mondo di sicuro non ci sono che la morte e le tasse.