Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Moralismo "peloso"

Esplora:
Silvio Berlusconi

  • a
  • a
  • a

Potrebbe essere una imposta straordinaria sui patrimoni. Potrebbe essere una tassa una tantum sui redditi più elevati. Potrebbe essere un aumento di aliquota dell'Irpef. Potrebbe essere una di queste ipotesi o un'altra ancora. Il fatto, però, è che nel programma di qualunque eventuale governo post-berlusconiano l'incremento della pressione fiscale è un punto irrinunciabile. Ed è logico che sia così. Solo la cultura liberale fa della lotta contro la fiscalità esasperata, oltre che contro l'invadenza dello Stato e della burocrazia nella vita e nelle scelte individuali, il proprio vessillo. La discesa in campo di Berlusconi e la travolgente vittoria nelle elezioni del 1994 avvennero all'insegna di un programma che aveva il fulcro nella dichiarazione di guerra contro un sistema fiscale ingiusto e oppressivo. Questo punto del programma di Forza Italia, che chiedeva la riduzione della pressione fiscale e l'introduzione di una aliquota unica, era stato scritto da un economista,Martino, che aveva guidato nel 1986, la «rivolta fiscale» culminata in una memorabile marcia antitasse che vide mobilitarsi i ceti produttivi del Paese. Ma pochi anni dopo quella storica protesta, nel 1992, il governo tecnico guidato da Amato non ebbe scrupoli a «rapinare» gli italiani con un provvedimento retroattivo che prelevava una percentuale dai conti bancari degli italiani per «un interesse di straordinario rilievo» in relazione a «una situazione di drammatica emergenza della finanza pubblica». Si sa come andarono poi le cose. Il primo governo Berlusconi non fu in grado di mantenere la promessa. E neppure i successivi. Ma il problema del fisco è sempre in testa ai pensieri dei moderati, che sono il ceto produttivo del paese. Sono i veri liberali. Sono quanti credono che la presenza oppressiva di uno Stato esoso e di una burocrazia di lacci e laccioli, sia un male. Sono coloro che lavorano e non evadono. Gli evasori appartengono a un'altra razza: sono, per dirla con Keynes, quanti credono che «sfuggire alle tasse sia diventata l'unica impresa che offra ancora un premio». Berlusconi si è fatto portavoce di questo popolo di moderati e di benpensanti, insomma di liberali. Ne ha interpretato sogni e aspettative. E ciò anche se, proprio in politica economica e fiscale, complice la crisi internazionale e le suggestioni «colbertiste» e socialiste di esponenti dei suoi stessi governi, ha fatto ben poco. Ma è proprio sul tema delle tasse, in un Paese dove si registra uno dei più elevati livelli di pressione fiscale, che si misura la differenza «antropologica» fra il centro-destra liberale, da una parte, e il centro-sinistra e la sinistra illiberale, dall'altra. Il liberale appartiene a una tradizione di pensiero «realistico». Chi liberale non è, invece, fa riferimento a una tradizione speculativa «ideologica», che si risolve in un «moralismo» peloso nei confronti del capitalismo sentina di ogni male. Questo moralismo è una manifestazione di quell'invidia che, con la scusa della perequazione, vuole punire, con lo strumento della tassazione, chi lavora, produce, guadagna e risparmia. Queste cose vanno ricordate di fronte alle sortite di Veltroni sulla necessità di intervenire con una imposizione triennale straordinaria sulle ricchezze per avviare il ripianamento del debito pubblico. E, a maggior ragione, vanno rammentate di fronte agli apprezzamenti per l'idea di una imposta patrimoniale provenienti dall'Udc e da altri settori del mondo politico. Il debito pubblico non si ripiana imponendo tasse. L'obiettivo si ottiene, semmai con la ricetta contraria: abbassandole per stimolare l'economia e la ripresa. I liberali queste cose le sanno, i socialisti di ogni colore rifiutano di sentirsele dire. E il risultato è che la «novità» per il rilancio politico dell'opposizione è la proposta di nuove tasse. E di un governo delle tasse. Dio ce ne guardi! Anche se, come diceva Franklin, a questo mondo di sicuro non ci sono che la morte e le tasse.  

Dai blog