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Le toghe sataniche

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Che cosa penserebbe un antico cabbalista ebreo del fiero grappolo di magistrati che da tre lustri e rotti – orchestrando e dirigendo un trescone politico, mediatico e giudiziario senza precedenti, per durata e virulenza, nella storia del Paese – sta cercando di accoppare Silvio Berlusconi? Me lo chiedo leggendo un bel saggio di Gershom Sholem (il grande filosofo, teologo e semitista israeliano di origine tedesca: 1897–1982) sui concetti di Bene e di Male nella Qabbalah ebraica. Il saggio è la seconda di sei conferenze che egli tenne negli anni Cinquanta ad Ascona, ai colloqui di Eranos, sui concetti fondamentali della Qabbalah. Bene: in questa conferenza (raccolta con le altre sei in un nuovo volume appena edito dalla Adelphi: «La figura mistica della divinità»). Si apprende fra l'altro che per alcuni di quegli audacissimi mistici che erano i cabbalisti medievali ebrei il principio del Male era strettamente associato a quello del Rigore e del Giudizio: due parole con le quali essi non intendevano affatto soltanto il rigore e il giudizio umani, ma anche e soprattutto – e questo è l'aspetto più sorprendente della loro speculazione – il rigore e il giudizio divini. L'esposizione di Scholem muove dalla domanda su ciò che il racconto biblico della creazione insegna realmente sull'origine e la natura del male. Il male entra nel mondo soltanto con l'ingresso dell'uomo sulla scena o è un elemento costitutivo della creazione stessa? Su questo dilemma i cabbalisti più antichi conservarono a lungo un atteggiamento ambivalente. Molti di essi, pur di evitare lo scoglio dell'immagine di un Dio creatore, e perciò responsabile, anche del Male, influenzati dal pensiero greco, aderirono alla metafisica platonica del Male come «privazione» e «mancanza». Ma a partire dal XVI secolo l'idea che il male potesse essere al contrario un principio attivo, e avere dunque una sua realtà metafisica, si affermò intrepidamente nello Zohar («Il libro dello splendore»), giudicato dagli esperti l'opera principale della tradizione cabbalistica ebraica. Al centro di quest'opera figura una dottrina secondo la quale il dio vivente, nella sua azione creatrice, ha rivelato la propria essenza in dieci manifestazioni energetiche, dette «sefirot», corrispondenti ad altrettanti suoi attributi. All'interno della sfera delle sefirot si registrano tuttavia tensioni che a noi sembrano contrasti inconciliabili, ma che invece, come le diverse note di una melodia, trovano il loro posto in quella struttura armoniosa che è l'unità dinamica di Dio. Il più grave di questi contrasti è comunque proprio quello tra i due primi dei dieci attributi di Dio: quello dell'Amore e del Bene e quello della Potenza e del Giudizio. E qui compare una concezione secondo la quale l'azione di questa potenza, non raffrenata e inibita, e con ciò strappata al suo legame con tutte le altre «sefirot», sarebbe la radice stessa del male. È perciò chiaro – conclude Scholem – che per questi pensatori «la qualità del rigore di Dio è come un angelo accusatore o, per dirla in breve, è Satana steso che cerca con le sue accuse di eccitare il potere punitivo di Dio, e anzi in certo modo lo incarna». Fra i tanti temi affrontati dalla mistica cabbalistica ebraica questo dell'essenza demoniaca del Giudizio e del Rigore divini è probabilmente quello più complesso e oscuro. Tutt'altro che oscura è però la ragione per cui ho dedicato proprio a questo tema questa noterella. Essa risiede infatti in questo banale quesito: se gli antichi cabbalisti ebrei sospettavano che lo stesso giudizio divino potesse essere «satanico», che cosa oserebbero pensare del giudizio delle nostre toghe linciatrici?  

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