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Nel Paese cresce il deficit democratico

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Non è per nulla come sostiene Luca Cordero di Montezemolo. È molto peggio. Non è a rischio la tenuta del Paese. È a rischio la democrazia rappresentativa, con il suo sistema di separazione e bilanciamento dei poteri teorizzato dal costituzionalismo liberale. Le ultime vicende lo dimostrano. Il problema vero, infatti, non è tanto la sorte di Berlusconi – né come uomo né come leader di partito né come premier – quanto piuttosto quella di un sistema politico e istituzionale che, ogni giorno di più, sembra accrescere il proprio deficit di democrazia. C'è un potere, quello giudiziario, che ha assunto una posizione di sempre maggiore preminenza rispetto agli altri, in particolare rispetto al potere esecutivo. È il punto di arrivo di un processo storico iniziato con l'abdicazione della politica di fronte all'offensiva scatenata da certi settori della magistratura, ai tempi di Tangentopoli: una offensiva risoltasi in una «rivoluzione» culminata con l'azzeramento di una intera classe politica. Non siamo ancora giunti all'esito finale, al «governo dei giudici». Un esito, che, se si profilasse, non sarebbe foriero di buoni tempi. Il «governo dei giudici» evoca tristement tribunali rivoluzionari e grandi inquisitori. Tuttavia, per giungere a quell'esito poco manca. La magistratura – o, se si vuole, la parte più politicizzata di essa – è ormai in grado di fare e disfare leggi attraverso proprie interpretazioni delle norme legislative ovvero con l'ausilio di una Corte Costituzionale nella quale gli equilibri e le simpatie politiche hanno il loro peso. Ancora. La magistratura è in grado di autotutelarsi, persino di fronte a eventuali critiche, grazie a un incredibile meccanismo di difesa corporativa che si è autocreata e che è il sistema delle cosiddette «pratiche a tutela» votate dal Consiglio Superiore della Magistratura. Non basta. La magistratura può permettersi, diciamolo pure, di sbagliare, senza pagare per le conseguenze che i suoi eventuali errori possono comportare non soltanto ai singoli ma anche a tutta la collettività, quanto meno in termini di spreco di risorse umane ed economiche. La magistratura, di fatto, è un potere senza controlli, più tutelato di ogni altro. Quando, sull'onda emotiva di Tangentopoli e del primo grande scontro fra magistratura e politica, si giunse all'abolizione della norma relativa all'immunità parlamentare, venne fatta una operazione che in realtà portava a uno squilibrio gravissimo fra i poteri dello Stato. Essa, infatti, poneva il legislativo e l'esecutivo alla mercé del giudiziario e a un livello inferiore rispetto a questo. Con tutto quello che ne è conseguito. Che Berlusconi da oltre un quindicennio, sia stato messo nel mirino di alcune procure e sia stato fatto oggetto di un «trattamento» a dir poco privilegiato non è contestabile. E ciò, indipendentemente dal fatto che abbia realmente commesso i reati attribuitigli. Che gran parte delle inchieste giudiziarie nei suoi confronti, sia pure con un colossale supporto mediatico, non abbiano ottenuto l'effetto di far uscire di scena il nemico, ma lo abbiano addirittura rafforzato è un sintomo che andrebbe letto, più che come un appoggio a Berlusconi, anche come una critica all'operato di certa magistratura. Sarebbe necessaria una riforma organica della giustizia che, peraltro, non sembra ipotizzabile. Stando così le cose è difficile che gli appelli ad abbassare i toni dello scontro, da quelli autorevoli del Capo dello Stato a quelli della stampa benpensante e d'opinione, possano trovare accoglienza. Lo scenario è lo scontro finale. Ma la posta non è la vittoria dei Pm o di Berlusconi. È la sopravvivenza della democrazia rappresentativa teorizzata dal costituzionalismo liberale. E il pericolo incombente è quello dell'avvento della democrazia giacobina.  

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