Il solito Pd: tutti contro tutti
Alla fine, Pier Luigi Bersani riassume così il senso della giornata: «C'è stata in Direzione una larghissima convergenza, al termine di un dibattito appassionato, intelligente e ricco». In effetti i numeri parlano chiaro. Il segretario ha chiesto e ottenuto un voto sulla sua relazione: l'hanno approvata in 127, astenuti i due prodiani Sandra Zampa e Giulio Santagata, due i contrari. Un successo. Peccato si tratti di una scena già vista. Non è la prima volta che i Democratici arrivano ad un passo dalla resa dei conti. Litigano sulle pagine dei giornali, si combattono a colpi di dichiarazioni, poi tutto finisce con una stretta di mano e parole entusiaste su quanto sia bello militare in un partito in cui si dibatte liberamente. Passano un po' di giorni e si ricomincia daccapo. Anche la discussione di ieri si è svolta secondo il solito canovaccio. Bersani ha ripetuto gran parte delle cose dette nei giorni scorsi: le elezioni sarebbero una «sconfitta» per Berlusconi; il Pd deve mettersi alla guida di una «riscossa italiana» o il Paese rischia di disgregarsi; occorre immaginare «un'agenda riformista per i prossimi dieci anni». Quindi, dopo aver lanciato la proposta di una legge elettorale con «doppio turno e quota proporzionale» (nel programma di governo del 2008 si parlava di «collegi uninominali maggioritari a doppio turno» ndr), ha toccato i tre temi più spinosi della discussione: Fiat, primarie e alleanze. Sul Lingotto Bersani ha ribadito che il Pd rispetterà l'esito del referendum senza «tifare» per il sì o per il no, consapevole che in gioco c'è il futuro di lavoratori abbandonati da un governo «latitante». Sulle primarie si è limitato a sottolineare che non è mai stata sua intenzione eliminarle, ma che occorre «riformarle». E infine ha ricordato che «c'è bisogno di alleanze forti tra forze del centrosinistra e della sinistra e tra le forze progressiste e quelle moderate di centro». A questo punto è arrivato il colpo di scena. Un «tifoso» del sì all'accordo di Mirafiori come Sergio Chiamparino ha lasciato la Direzione deluso. E chi è restato non si è lasciato sfuggire l'occasione di esplicitare il proprio malumore. Così si è delineata in maniera plastica la battaglia interna ai Democratici. Da un lato il segretario che incassa il plauso di Massimo D'Alema (che però parla solo con i giornalisti a margine della Direzione), Franco Marini, Piero Fassino e Dario Franceschini che mostra come la sua Areadem sia ormai parte integrante della maggioranza. Sul fronte opposto resistono l'area di Ignazio Marino, gli ulivisti di Arturo Parisi, i «rottamatori» di Pippo Civati (Matteo Renzi lascia la Direzione quasi subito per andare a Palazzo Chigi dove siglerà un protocollo di intesa tra la città di Firenze e il ministero dei Beni culturali ndr), ma soprattutto il Modem di Walter Veltroni, Giuseppe Fioroni e Paolo Gentiloni. E se il primo non proferisce parola, i secondi fanno «fuoco e fiamme». Lo scontro è tutto interno all'anima ex Ppi. La minoranza veltroniana fa sapere che non voterà la relazione di Bersani. Gianclaudio Bressa (Areadem) li attacca: se non la condividono lascino gli incarichi di partito. Detto fatto. Fioroni e Gentiloni rassegnano le dimissioni da responsabile del Welfare e della Comunicazione (il segretario le respingerà ndr). Sembra l'anticamera di una frattura insanabile. Si rincorrono appelli all'unità interrotti solo quando Rosy Bindi legge un'agenzia sulla decisione della Consulta sul legittimo impedimento (in sala parte qualche isolato applauso). Tocca a Bersani salvare «capra e cavoli». Nella sua replica conclusiva corregge leggermente il tiro. E il Modem, come «segno di disponibilità» decide di non partecipare al voto. Veltroni, in realtà, se ne è già andato da tempo e c'è chi vocifera che i suoi abbiano deciso di evitare la conta per non fare brutte figure. In ogni caso l'impressione è che la segreteria Bersani cominci a scricchiolare pericolosamente e che l'ex sindaco di Roma non mancherà di riaprire lo scontro quando sabato 22 gennaio salirà sul palco del Lingotto per delineare la sua idea di partito. Bersani, che dovrebbe essere presente a Torino, per ora si gode la vittoria della direzione e rilancia: «Solo il Pd può tenere unito il Paese». Sarebbe già tanto se riuscisse a tenere unito se stesso.