Il risultato del papocchio
La Consulta ha varato un papocchio. Com'era nelle previsioni. E come, dopo tutto, non poteva essere altrimenti. La Corte, infatti - proprio perché è un organismo di natura politica sia pure di rilevanza costituzionale - si è trovata profondamente spaccata sulla decisione da assumere e ha pensato di ricorrere al classico strumento della politica, anzi della politica più deteriore: il compromesso. In generale, il compromesso, checché se ne dica, non è mai una buona scelta, soprattutto quando riguarda idee, principi e procedure. In particolare, poi, nell'attuale fattispecie - in una situazione che tocca i poteri dello Stato e i suoi delicati equilibri - diventa una pessima scelta. Con la saggezza di chi non è un politico di professione ma un comune cittadino dotato di buon senso, il celebre tenore Jan Peerce, che tanto piaceva ad Arturo Toscanini, fece osservare che il compromesso politico ricorda l'arte di tagliare una torta in modo tale che ciascuno creda di aver avuto la fetta più grossa. È quanto, in effetti, sta accadendo di fronte alla sentenza appena emessa dalla Corte sulla costituzionalità della legge sul legittimo impedimento. Una sentenza che, almeno nei primi commenti politici, ha consentito a tutti gli schieramenti di dirsi, in buona o in cattiva fede, soddisfatti. I sostenitori della incostituzionalità della legge hanno potuto esultare per la "condanna" di una parte della stessa, mentre i loro avversari hanno pur essi dichiarato la loro soddisfazione perché "l'impianto" del provvedimento non sarebbe stato toccato dalla sentenza. Tutto bene, per tutti, dunque all'insegna del compromesso. In realtà le cose non stanno affatto così. Come ha scritto il direttore Mario Sechi, nel fondo di ieri, è successo tutto e non è successo niente. Non è successo niente, dal punto di vista delle ricadute politiche a breve, perché questa sentenza non ha effetti diretti e immediati né sulla situazione politica né sulla stabilità governativa. Ma, dal punto di vista della salvaguardia dei principi del costituzionalismo e della tutela dei valori della democrazia rappresentativa, è successo tutto, perché essa incide, in maniera profonda, sui rapporti e sugli equilibri fra i poteri dello Stato. Non si tratta affatto di una sentenza, come avrebbe fatto intendere il Quirinale, a detta del quotidiano di via Solferino, "equilibrata, ponderata e seria", una sentenza frutto di una sofferta mediazione condotta all'insegna dell'obiettivo della riduzione del danno. Quasi che - sembrerebbe - compito del supremo "tribunale delle leggi" non fosse quello di accertare, ed eventualmente suggerire la possibilità di sanare, violazioni costituzionali del legislatore ordinario, quanto piuttosto quello di ricorrere all'eterna vocazione dell'antico e collaudato bizantinismo giuridico italiano per cercare aggiustamenti, transazioni, compromessi. Questa sentenza sembra confermare - si tratta, naturalmente (ma non troppo), di una battuta - la famosa legge di Murphy secondo la quale «se ci sono due o più modi di fare una cosa, e uno di questi modi può condurre a una catastrofe, allora qualcuno prima o poi sceglierà quel modo». Nella fattispecie, la catastrofe tocca uno dei cardini della democrazia, cioè il principio della indipendenza e della separazione dei poteri. Non si tratta di una esagerazione. Si tratta, piuttosto, di una constatazione di quello che potrebbe avvenire. Il fatto stesso di lasciare ai giudici la valutazione nel merito degli impegni, per esempio, del presidente del Consiglio che intenda far valere un legittimo impedimento a comparire in un'aula giudiziaria equivale a delegare al potere giudiziario la possibilità di sindacare l'operato del potere esecutivo, dettarne l'agenda, valutarne i contenuti, deciderne le priorità. In altre, e più semplici, parole equivale a stabilire il principio che il potere giudiziario, in una ideale scala gerarchica, debba essere a un livello superiore rispetto al potere esecutivo. Si tratta di una ingerenza che ha i caratteri di una vera e propria sopraffazione. Se un magistrato contestasse, per esempio, una riunione del Consiglio dei Ministri ovvero l'incontro con un capo di Stato o con uomo politico straniero adducendo, per esempio che l'ordine del giorno non è importante o l'incontro rinviabile, saremmo evidentemente in una situazione di vera e propria invasione del giudiziario nella sfera di responsabilità e discrezionalità dell'esecutivo e, anche, del legislativo. Un assurdo. Un assurdo giuridico e una violazione dei principi di separazione e indipendenza dei poteri. Ma non basta. C'è di più. Stando alla celebre definizione di Hans Kelsen, la giustizia costituzionale dovrebbe garantire la realizzazione della pace sociale. La sentenza della Corte sulla legge relativa al legittimo impedimento, va nella direzione opposta. Essa, infatti, apre la strada a una conflittualità permanente. Sia perché la Consulta sarà, verosimilmente, chiamata a decidere in continuazione sul conflitto fra potere esecutivo e potere giudiziario ogni volta che il giudice dichiari inammissibile un legittimo impedimento proposto. Sia perché l'eco di questa conflittualità è fatalmente destinata a dilagare mediaticamente nel paese, a innalzare la temperatura dello scontro politico, ad alterare la serenità necessaria per la funzione di governo, a insidiare proprio quella pace sociale di kelseniana memoria. Un bel risultato davvero!