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Quando lo bollavano così: fascista

La prima pagina de il Manifesto

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Nell'assordante silenzio dei benpensanti e dell'intellighentsia ho più volte scritto che le frasi contro Marchionne sono benzina sul fuoco. Mi era chiarissimo da molto tempo che il numero uno della Fiat era diventato il nemico pubblico numero due, appena un gradino sotto Berlusconi, il bersaglio di chi ancora sogna la rivoluzione. Oggi i sepolcri imbiancati si svegliano perché a Torino su un manifesto è comparsa una stella a cinque punte a corollario di una scritta eloquente: «Marchionne fottiti!». Verrebbe da scrivere a questi automi dell'indignazione a comando, «benvenuti a bordo», ma in realtà la loro voce suona in falsetto, è un coro di vampiri che oggi ti dà la solidarietà e un minuto dopo te la toglie perché non fa parte del disegno opportunista sul quale basa la propria esistenza di sanguisuga di regime. Quando un manager - le cui scelte si possono civilmente discutere - viene indicato come l'uomo da abbattere, allora non si può poi vedere la frittata sul pavimento e dire «ah, perbacco, no, così non va». Quando si arriva a dipingere un capitano d'impresa come un «fascista», quando stelle nascenti della sinistra giungono a conclusioni che invitano ad ambigui «gesti radicali», non si può strillare, agitare le mani e far finta di non essere partecipi della roulette russa. Marchionne va difeso da tutto questo, l'industria italiana va salvata dai nuovi cattivi maestri e da chi pensa - anche in buonafede ma con pericolosa ingenuità - che le parole siano innocue. Ho criticato la prima pagina de Il Manifesto di qualche giorno fa, il titolo era un calembour e nelle intenzioni della redazione del giornale comunista solo quello voleva essere, ma in un momento in cui le bombe vengono spedite sul serio e le minacce sono una cosa reale, piazzare il titolo «Pacco bomba» su una foto di Marchionne non è una trovata intelligente ma infelice. Le polemiche giornalistiche sono niente rispetto alla insipienza della politica, alla sua incapacità di prevedere quel che accade, alla sua ignoranza. È un discorso che riguarda purtroppo la sinistra, la qualità dell'opposizione, ma non risparmia settori del centrodestra. Ci sono amplissime fasce della politica e dell'establishmnent che non hanno compreso il legame nuovo tra globalizzazione e lavoro, tra fabbrica e innovazione, qualità e produzione. La classe dirigente deve studiare, leggere, comprendere che affrontare i processi di cambiamento del capitalismo con le categorie del Novecento è pura follia. Oggi questo tema riguarda la Fiat - azienda che ha spostato il suo baricentro negli Stati Uniti e si muove nel mercato globale - ma domani toccherà tutti i principali gruppi industriali del Paese. Se l'Italia vuole competere a livello internazionale - e sopravvivere alla sfida lanciata da nuove realtà produttive, da Paesi che non sono più emergenti ma titani ampiamente emersi sul mercato - deve ripensare tutto il suo modo di porsi al cospetto di questi temi. Invece no. La reazione pavloviana è quella della conservazione da una parte, dell'opposizione estremista dall'altra, dell'adulazione della rivolta, degli appelli in puro stile anni Settanta, del birignao chic applicato alla catena di montaggio, una realtà dove Marx non vale più e Adam Smith s'è trasferito a Pechino. In tutto questo chi ha moltissimo da perdere è la Cgil guidata da Susanna Camusso. Il sindacato del quadrato rosso è in bilico. Finché gli accordi del 1993 tenevano, la sua supremazia nella rappresentanza del lavoro aveva ampia copertura, ma prima o poi capita che «contra facta non valet argumentum», di fronte alle iperveloci dinamiche del mercato della produzione e del lavoro le posizioni, l'ideologia, le visioni del mondo della Cgil sono maledettamente invecchiate e in moltissimi casi prive di senso. La Fiom, ala durissima del sindacato dei metalmeccanici, rischia di essere la zavorra che porterà a fondo la Cgil. Scrivo queste cose essendo convinto della necessità di avere un sindacato - di sinistra - autorevole, forte, un interlocutore intelligente. Perché il turbocapitalismo non guarda in faccia nessuno, ha regole spietate e proprio per tali ragioni ha bisogno di un bilanciamento, di trovare soluzioni equilibrate. Tutto questo finora è stato assente e in luogo della libera e franca discussione si è avuto un dibattito pubblico lacerato, cattivo, un linguaggio che ha dipinto Marchionne come un dittatore che vuole ridurre gli operai in schiavitù e via così in un crescendo di idiozie e sparate frutto di un pensiero debole pericolosissimo. Questo Paese ha una insanguinata tradizione di violenza politica che non è mai sparita. La memoria cattiva tende a cancellare il micidiale fatto che in Italia negli anni Ottanta si moriva per terrorismo. Si è rimosso in gran fretta l'assassinio di Marco Biagi sotto casa sua a Bologna nel vicinissimo 2002, si sono archiviate come banali episodi le indagini delle nuove Br su altri esponenti delle istituzioni. Ora la stella a cinque punte è tornata e brilla come una sinistra aureola sulla testa di Marchionne. Quasi tutti faranno spallucce o manderanno alle agenzie la vibrante protesta, ottima per lavarsi la cattiva coscienza. A me vengono i brividi.  

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