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Nel Tricolore il futuro dell'Italia

Regggio Emilia, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano e il sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio consegnano una copia del primo tricolore al sindaco di Roma Gianni Alemanno

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È spettato, in un certo senso, al tricolore il compito di dare ufficialmente inizio alle celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità d'Italia, con la cerimonia che si è svolta ieri a Reggio Emilia, là dove nacque appunto la bandiera dai tre colori, alla presenza e con la partecipazione del capo dello Stato. È giusto che sia così: la bandiera è un simbolo importante per uno Stato e, più in generale, per una collettività nazionale. È, anzi, il segno distintivo e identificativo dell'unità nazionale. Quando, in pieno regime fascista, Mussolini cercò di imporre il fascio littorio all'interno della banda bianca del tricolore occupata solo dallo stemma sabaudo, Vittorio Emanuele III non volle mai firmare il relativo decreto che gli veniva ripetutamente sottoposto. Non era affatto una impuntatura del «piccolo Re», come credeva il duce: era, piuttosto, un gesto che, affermando l'intangibilità della bandiera, voleva riaffermarne il carattere simbolico. Per decenni e decenni, nell'Italia liberale, l'Unità fu festeggiata dappertutto, nelle ricorrenze della concessione dello Statuto e della proclamazione del regno d'Italia, nelle scuole e negli uffici pubblici (ma anche nelle abitazioni private) tirando fuori dalle custodie la bandiera nazionale, svolgendola e issandola sull'asta dei balconi centrali o esponendola alle finestre. Il vessillo che sventolava faceva fremere i cuori. È bene, dunque, ribadiamolo, che le celebrazioni del 150° anniversario dell'Unità siano partite da Reggio Emilia, col tricolore grande protagonista, accompagnate da un monito solenne del Capo dello Stato: «Non celebrare l'Unità d'Italia non giova a nessuno». È vero: non celebrarlo, questo avvenimento, ignorarlo, o contestarlo, addirittura, come da qualche parte si fa per moda o per scelta ideologica, è un male in sé. E un male per il Paese. Il Risorgimento fu consegnato a un'immagine oleografica che metteva insieme i quattro padri della patria - Garibaldi e Mazzini, Cavour e Vittorio Emanuele - e che aveva il compito, si direbbe oggi, di «nazionalizzare le masse» consolidando la coscienza nazionale e contribuendo alla scoperta o riscoperta, di una comune «identità nazionale». In realtà il fenomeno storico era stato complesso e pieno di chiaroscuri; molti e forti erano stati i contrasti, culturali e politici, che avevano accompagnarono il processo di unificazione nazionale. L'Italia scaturita dal Risorgimento fu l'Italia della soluzione monarchica e liberale: un'Italia minore rispetto ai vagheggiamenti mazziniani sulla missione universale, religiosa e civile, che sarebbe spettata alla «Roma del Popolo», alla «Terza Roma», ma un'Italia che seppe avviarsi sulle strade della modernizzazione economica, politica e istituzionale. Furono strade accidentate. La classe dirigente dovette fare i conti con scelte difficili e sofferte: l'opzione, per esempio, di un ordinamento amministrativo accentrato dovuta alla convinzione che, allora, il decentramento rischiasse di compromettere il rafforzamento dello Stato, alimentasse il municipalismo, accrescere il potere dei potentati locali, ostacolasse una educazione nazionale e desse fiato alle forze centrifughe. Dovette affrontare la critica situazione economico-finanziaria, creare una rete di uffici pubblici centrali e periferici, costruire ferrovie, strade e acquedotti, aprire scuole e tribunali. Dovette misurarsi con il problema meridionale e con la disparità fra il benessere del nord e la miseria del sud. Eppure, malgrado tutto, l'Italia andò avanti all'insegna dell'identificazione fra Stato liberale e moto risorgimentale. Quando nel 1911 si festeggiò il primo cinquantenario dell'Unità, si constatò la profonda adesione del paese ai valori, agli ideali, alle istituzioni, ai simboli del Risorgimento. Mezzo secolo più tardi, nel 1961, in occasione del primo centenario dell'unità d'Italia, le cose sembrarono cambiate. Lo rilevarono grandi storici - Rosario Romeo e Gioacchino Volpe - i quali fecero notare come le manifestazioni celebrative venissero seguite con distacco. Erano accadute tante cose: c'erano stati il fascismo, la Resistenza, il nuovo Stato democratico. Sembrava che il paese faticasse a riallacciare il suo presente al passato. Rosario Romeo denunciò una tendenza all'affievolimento dei valori patriottici dell'età risorgimentale e alla svalutazione delle conquiste dello Stato unitario liberale, a causa, fra l'altro, dell'incidenza di un quadro politico egemonizzato dai due partiti, la Dc e il Pci, eredi diretti di forze, in qualche modo, estranee o contrarie al moto risorgimentale. Oggi è peggiorato il rapporto degli italiani con la storia nazionale, con la conoscenza delle vicende risorgimentali, con la costruzione di un'identità comune nel rispetto delle identità locali. Alla vigilia del 150° anniversario dell'unità, le pulsioni antiunitarie e la tentazione di svilire i valori nazionali e liberali sono tornate di moda per una sorta di debolezza etico-politica tradottasi in perdita della consapevolezza dell'identità e della coscienza nazionale. Col risultato di favorire la rinascita di tendenze centrifughe e sollecitazioni «micronazionaliste» oltre che il ritorno di improponibili suggestioni antistoriche e di recriminazioni sulle modalità di realizzazione dello Stato nazionale. Il 150° anniversario è una grande occasione per rileggere il Risorgimento per quello che esso davvero fu. Il Capo dello Stato ha sottolineato l'importanza delle celebrazioni e ha invitato a evitare le semplificazioni acritiche, idilliche o demolitorie. È un invito sacrosanto e politicamente importante. Oggi, troppo si parla di antirisorgimento. O di processi da intentare al Risorgimento. O di federalismo in chiave antirisorgimentale, dimenticando che il federalismo fu una delle grandi opzioni di quell'epoca. Troppo poco si parla di Italia. E del futuro dell'Italia.  

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