Pininfarina ai cinesi. E ora chi lo dice alla Fiom?
Proprio mentre Sergio Marchionne lunedì mattina brindava al debutto in Borsa delle doppia Fiat, i riflettori di Piazza Affari si accendevano sul titolo di un altro gruppo storico torinese: Pininfarina. A infiammare la speculazione sono state le indiscrezioni circa una possibile offerta in arrivo sul celebre marchio di design a quattro ruote dal produttore automobilistico cinese Baic con cui Pininfarina ha già rapporti industriali attraverso Saab. La corsa del titolo è continuata anche ieri nonostante i chiarimenti del gruppo : «Ad oggi siamo ancora in una fase di raccolta delle manifestazioni di interesse dei potenziali acquirenti», recita il comunicato ufficiale. A Torino sembravano pronti ad accogliere nel capitale Vincent Bollorè (già partner commerciale per lo sviluppo di un'auto elettrica). Ingresso che in caso di avanzata asiatica non avverrà, sempre che il finanziere bretone non rilanci in questi giorni con una contromossa. I cinesi dal canto loro puntano ad ampliare lo spettro delle proprie attività allargandolo al design e alla progettazione di autovetture, con un'attenzione particolare agli sviluppi proprio dell'auto elettrica. Pininfarina fa gola a molti (un mese fa si vociferava anche di un interesse del colosso austro-canadese Magna) anche perché è ormai rimasta l'unica «carrozzeria indipendente» del polo torinese, sebbene il 77% del capitale detenuto dalla cassaforte di famiglia sia in pegno alle banche creditrici. Una preda facile e appetibile, dunque. Il cui destino sembra andare nella stessa direzione di altri gioielli torinesi come la Italdesign di Giugiaro, finita nel portafoglio della Volkswagen, o come la Trilix, nata dalla fuoriuscita di dirigenti di peso dalla Idea Institute che ha sfornato modelli Fiat tra gli anni '80 e '90 e che ora è finita nelle mani degli indiani di Tata. Esattamente la direzione opposta alla strada presa da Fiat grazie a Marchionne. Il numero uno del Lingotto viene crocifisso perché globalizza, perché è pronto a conquistare la Chrysler (gratis e con l'appoggio di Obama), perché batte il ferro delle deroghe ai contratti nazionali (che Confindustria da due anni aveva aperto col consenso degli stessi sindacati che condividono la nuova impostazione a Pomigliano e Mirafiori) rimediando a storture tutte italiane. Proprio perché chi si ferma è perduto. O può essere mangiato dai cinesi. Secondo alcuni osservatori, l'errore di Pininfarina è stato proprio quello di non sbarazzarsi abbastanza in fretta degli impianti produttivi in era di delocalizzazione. Con il risultato che, come ha ammesso qualche mese fa a Torino il segretario provinciale della Fiom, Federico Bellono, «il gruppo non esiste più come soggetto imprenditoriale autonomo: Pininfarina è delle banche». E chissà che farà la Fiom se arriveranno i nuovi padroni con gli occhi a mandorla. Chissà se Cremaschi e Landini alzeranno le barricate contro i manager cinesi che a casa loro macinano profitti proprio perché lo Stato decide i salari, evita la costituzione di sindacati e limita il flusso delle informazioni. Scopriranno che effetto fa un referendum alla pechinese.