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Le riforme possibili

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Giorgio Napolitano

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L'anno nuovo si apre con una sfida importante per il governo. Ammesso, ovviamente, che il governo possa in qualche modo rafforzarsi e garantire il proseguimento della legislatura. La sfida è, a ben vedere, quella - la sfida riformatrice - all'insegna della quale fu condotta la campagna elettorale e il cui contenuto fu presentato agli elettori, prima, e al paese tutto, poi, come elemento qualificante dell'attività di governo. Si parlò, anche alla luce dei risultati elettorali, di «legislatura costituente», ovvero di una legislatura che avrebbe dovuto lasciare il segno non soltanto sul terreno delle riforme capaci di garantire l'ammodernamento della macchina burocratica e amministrativa del paese, ma anche sul terreno delle cosiddette «riforme istituzionali» ovvero sulla architettura giuridica stessa dello Stato. Ora, se sul primo terreno molto si è fatto - basti pensare agli intereventi relativi alla pubblica amministrazione, alle pensioni e, da ultimo, alla riforma universitaria - sul secondo terreno, a parte il discorso sul federalismo, si è ancora indietro. Eppure, che il paese e abbia bisogno di una modernizzazione politica che passi per strada di una profonda revisione della Costituzione è fuor di dubbio. Sono frutto di ignoranza o, più probabilmente, espressione di malafede politica gli alti lai dei sacerdoti della «intangibilità» della carta costituzionale - quelli, per intenderci che, a ogni piè sospinto, invocano il cosiddetto «patriottismo costituzionale». Costoro dimenticano che le parole della Costituzione non sono intangibili, non sono scritte sulla pietra, possono (e debbono, se necessario) essere ritoccate. Come del resto è avvenuto più volte, anche con interventi significativi. Il governo - uscito indenne dal complotto contro il presidente del Consiglio ordito, per motivi personali ovvero per odio antiberlusconiano, da un manipolo di traditori in combutta con gli sfascisti dell'opposizione e con i nostalgici della prima repubblica - cercherà di andare avanti per evitare al paese il trauma di elezioni anticipate. E sta bene. Il presidente del Consiglio sta facendo di tutto per rafforzare o ampliare la maggioranza a questi fini. Il problema di fondo, però, sul quale il governo potrà misurare la propria capacità e forza operativa sarà quello di rispondere finalmente alla sfida riformatrice. Con il federalismo in dirittura d'arrivo, è indilazionabile mettere mano alla architettura istituzionale dello Stato. È, in altre parole, necessario - perché l'edifico costituzionale non risulti sbilenco e inefficiente e si possa completare la transizione verso quella «democrazia maggioritaria» propria dei più moderni e funzionali sistemi politici democratici - che venga ripreso, e portato avanti con estrema urgenza, il tema del cosiddetto «premierato». E, con esso, quello del bicameralismo ripensato alla luce delle più significative esperienze federali. Il «premierato» o governo del Primo Ministro è, infatti, proprio lo strumento necessario per consolidare e facilitare l'evoluzione maggioritaria e bipolare del sistema politico italiano, quale sì è andata di fatto realizzandosi, malgrado le critiche e le demonizzazioni dei centristi o terzopolisti. Se ciò è vero, è anche vero che questo tema rappresenta, come si diceva in apertura, una sfida per il governo. Anzi, la sfida, la vera sfida. Il motivo è semplice e si compendia in una domanda. Potrà mai essere sufficiente uno scorcio, pur ampio, di legislatura per portare avanti una riforma che richiede il lungo iter delle procedure previste per le leggi costituzionali, tanto più, se dovesse mancasse una fattiva collaborazione delle opposizioni?. È difficile pensarlo. E del resto la sopravvivenza del governo avrebbe senso, ormai, solo se esso riuscisse a portare a termine quelle riforme strutturali che avevano fatto parlare di questa legislatura come di una «legislatura costituente». Anche l'eventuale riforma del sistema elettorale potrebbe essere realizzata soltanto contestualmente a una riforma strutturale del sistema politico. In proposito vale la pena di rammentare - proprio per mostrare l'indissolubilità del nesso fra legge elettorale e sistema politico - una dichiarazione fatta, quando non era ancora presidente della Repubblica, da Giorgio Napolitano, nel 1996. Egli, allora, manifestò la preferenza per un «governo del primo ministro» basato su un sistema elettorale uninominale maggioritario a doppio turno, che prevedesse il collegamento tra i candidati nei collegi uni nominali e il nome del candidato premier al fine di «risolvere il problema di una indicazione popolare» e di «una scelta chiara e legittimante da parte dei cittadini». Se il governo accettasse di mettere in discussione la legge elettorale senza una contestuale discussione della forma di governo fallirebbe nell'obiettivo di rendere la legislatura «costituente». E, allora, sarebbe tutto sommato meglio il ricorso alle urne e l'avvio di una nuova legislatura. In fondo, pur con il suo linguaggio bruto, quando Bossi osserva, a proposito del futuro del governo, che «i numeri sono scarsi», dice proprio questo.  

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