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Bruto: l'ultimo simbolo rimasto alla Sinistra

Pierluigi Bersani

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Si chiama Bruto il personaggio più caro alla cultura e alla pratica dei comunisti, passate in eredità a tutte le sigle seguite al Pci, compreso il Pd guidato oggi da quella specie di Lenin emiliano che è Pier Luigi Bersani, o Pierluigi tutto attaccato, come preferiscono scrivere gli amici e i compagni. Bruto è naturalmente Marco Giunio Bruto, appunto, il senatore della tarda Repubblica romana passato tristemente alla storia per avere partecipato al tradimento e all'assassinio di Giulio Cesare, infliggendogli forse la pugnalata mortale, quella comunque avvertita come tale sul piano dei sentimenti dal tradito. Che gli mormorò: «Anche tu, Bruto, figlio mio». Un po' - direbbe probabilmente Giulio Andreotti - Cesare se l'era cercata. E ciò non tanto per avere accumulato tanto potere, quanto per essersi troppo fidato di uno che non meritava. Oltre ad essersi arricchito con l'usura, Bruto aveva già combattuto Cesare schierandosi con Pompeo e chiedendogli scusa solo dopo essere stato sconfitto militarmente. Il povero Cesare imprudentemente lo perdonò e gli fece fare carriera, prima nominandolo governatore della Gallia e poi pretore. Ogni volta che i comunisti, e i loro eredi o emuli, hanno avuto un avversario - e ne hanno avuti sempre perché non sanno vivere senza averne - si sono preoccupati di coltivare un Bruto capace di supplire alle loro debolezze o impotenze. Il primo Bruto nella loro lunghissima, implacabile guerra politica a Silvio Berlusconi fu nel 1994 Umberto Bossi, che affondò il governo del Cavaliere alla fine di quell'anno dopo avere pasteggiato con prosciutto e sardine con Massimo D'Alema e Rocco Buttiglione. Ma Bossi non tardò a conoscere bene i suoi nuovi compagni di avventura e a pentirsene, tornando all'alleanza con Berlusconi, questa volta su basi più solide e chiare dell'altra. In verità, c'è ancora fra comunisti, post-comunisti e via discorrendo chi insegue un secondo tradimento del leader leghista, visto che non più tardi di ieri sull'Unità un anonimo "congiurato" comunicava a "lorsignori" il sogno di una Lega capace di "porre fine ad un governo Berlusconi per la seconda volta in 17 anni". Poveretti, debbono essere ridotti molto male se vivono di questi miraggi. Un altro Bruto nella guerra a Berlusconi i suoi avversari lo hanno individuato e coltivato nei mesi scorsi in Gianfranco Fini. Al quale hanno permesso, fra l'altro, di fare della Presidenza della Camera un uso politicamente disinvolto che nessuno dei loro uomini avvicendatisi al vertice di Montecitorio si era mai permesso: né Pietro Ingrao, né Nilde Jotti, né Giorgio Napolitano. Poiché Fini evidentemente non bastava, essendosi rivelato meno consistente del previsto o del desiderato, essi hanno corteggiato ad un certo punto anche il presidente della commissione parlamentare antimafia Giuseppe Pisanu. Sono arrivati a designarlo più o meno esplicitamente, in qualità di ex ministro dell'Interno di Berlusconi e di uomo ormai "delle istituzioni", alla guida di un governo di transizione, o di altra denominazione, in caso di crisi. È finita con la bocciatura della sfiducia.   Adesso è arrivato il turno di Giulio Tremonti, immaginato a sinistra come l'uomo del colpo fatale al Cavaliere. Dalla monnezza, alla quale lo avevano degradato come ministro dell'Economia di Berlusconi, lorsignori sembrano pronti a portarlo sull'altare. Poverini. Tremonti, più accorto e colto dei suoi improvvisati tifosi, sa bene peraltro che fine fece Bruto: morì suicida, inseguito dal fantasma di Cesare.

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