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La crisi infinita dei Democratici

Pierluigi Bersani

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Il 2010 volge al termine ed è giunta l'ora di cominciare a fare un po' di bilanci. Comincerò con un tema davvero complicato anche per chi mangia politica e minestra tutti i giorni: il Partito Democratico. Dove sta andando? Qual è il suo futuro? E soprattutto che cosa resta del Pd nato il 14 ottobre del 2007? Sono domande che immagino si pongano per primi i leader del partito, il segretario Pierluigi Bersani e gli azionisti di maggioranza e minoranza di una formazione politica che si presenta ai nastri di partenza del nuovo anno con questo nuovissimo slogan: «Obiettivo 2011: andare oltre Berlusconi». E qui viene subito al pettine il primo nodo politico, quello mai sciolto dai progressisti italiani: il Cavaliere. Nero. Di Arcore. L'ossessione del centrosinistra. Sedici lunghi anni dopo il 1994, tutte le figurine del Pci-Pds-Ds-Pd sono cambiate (mantenendo però il loro seggio) mentre nell'Album del Nemico è rimasto sempre lui, Silvio. In politica l'avversario è importantissimo, fondamentale per porsi degli obiettivi, il problema del Pd però è che la missione di liberarsi del Cavaliere è sempre fallita. Anche quando hanno vinto le elezioni - e per due volte hanno avuto la possibilità di governare e fare le riforme per confermarsi forza di governo - i democratici italiani hanno perso l'occasione di mostrarsi agli elettori come una forza riformista. Sono stati incapaci di far durare un esecutivo per più di due anni. Chiusa in maniera catastrofica nel 2008 la stagione di Romano Prodi (che comunque aveva incarnato la mediazione tra le forze di sinistra e il centro e si era proposto figura da opporre a Berlusconi) il progressismo italiano aveva provato a riorganizzarsi nel nome di un nuovo progetto e un uomo non nuovo (Walter Veltroni) ma ancora più che spendibile nel campo della battaglia politica. Il Pd doveva essere la fusione perfetta del postcomunismo e della sinistra cattolica, la sintesi di due culture giunte al capolinea della Storia ma in teoria capaci di rinnovarsi. Quel progetto è fallito. Veltroni ha commesso molti errori, è stato sconfitto platealmente da Berlusconi nelle elezioni politiche del 2008, ma soprattutto dopo la debacle ha gettato la spugna di fronte a una faida interna di cui lui era senza dubbio la vittima, ma non per questo destinata alla morte certa. Quello di Veltroni è stato un errore politico che pesa come un macigno. In quel momento Walter avrebbe dovuto mostrare quelli che Indro Montanelli chiamava «gli attributi». E invece no. Il condottiero ha lasciato i suoi in mezzo al guado e Massimo D'Alema ancora una volta solitario a disegnare una strategia che ha portato alla segreteria del partito Pierluigi Bersani. Quel patatrac e il cambio di guida non hanno risolto nulla, solo allungato la crisi d'identità e incoraggiato l'uscita di molti elementi validi del partito. Uno dei fondatori del Pd, il leader della Margherita Francesco Rutelli, ha lasciato il partito per far volare l'Api. L'esodo dei centristi dal Pd è inesorabile, l'uscita di Riccardo Milana dalla galassia democratica verso il movimento rutelliano è un segnale chiaro: il centro si sta sganciando e il Pd sta regredendo alle orgini, sta riacquistando la "esse" per tornare ad essere quel Pds fondato nel 1991 poi trasformato in Ds nel 1998. Allora fu poco più di un'operazione di maquillage, visto che il 75 per cento del gruppo dirigente proveniva dal Pds. Ma oggi questa trasfigurazione non è più una furbesca operazione di trucco e parrucco, non è un'azione attiva, ma subita, è un passo indietro gigantesco, un salto nel passato. Nel frattempo, a destra e a sinistra del Pd sono sorti e hanno fortuna due fenomeni, due nomi e cognomi: Antonio Di Pietro e Nichi Vendola. Sono due soggetti speculari, in un certo senso affini. Tonino e Nichi sono un linguaggio nuovo, un lessico politico di presa immediata: uno arruffa popolo e furbo contadino qualunque, l'altro esteta dell'utopia e scaltro neooperaista. Il loro modo di esprimersi, il loro racconto della nazione è quello che manca al Pd. Non in termini di contenuti - che dovrebbero essere alternativi - ma di efficacia, penetrazione, capacità di far presa su quelle che un tempo i ragazzi di Berlinguer avrebbero definito con orgoglio «masse». La comunicazione politica oggi vive più che mai di metafore, nel Pd stentiamo a vederne una. Scavalcato a destra dal giustizialismo in mietitrebbia di Di Pietro e superato a sinistra dall'altermondialismo alle orecchiette di Vendola, il Pd non ha più un'identità, ammesso ne abbia mai avuto una. Più volte abbiamo ironizzato sul principale partito dell'opposizione scrivendo che «il Pd è sparito», «nessun segno di vita dal Pd» e «il Pd è su Marte». L'iperbole giornalistica può non piacere, ma ha il pregio di far emergere con efficacia l'assenza di proposta politica e soprattutto il declino di una classe dirigente che alla fine della fiera s'è ritrovata in casa persino una squadra di «rottamatori» capitanata dal sindaco di Firenze Renzi. Il capitolo finale del 2010 ha offerto in maniera inequivocabile la prova di questa crisi profonda e l'assenza di una soluzione. I l governo è andato in crisi non per mano dell'opposizione, ma a causa di un dissidio profondo, personale e poi politico tra Berlusconi e Fini. In questa sfida all'ok Corral il Pd non ha mai sparato un colpo, è apparso sempre incapace di prendere la mira, con le polveri bagnate, le cartucce vecchie e il fucile Winchester inceppato. Nel gioco del cerino tra Silvio e Gianfranco il Pd è rimasto a guardare, al massimo ha cercato di appoggiarsi a Fini. E al termine del giro Bersani s'è scottato pure lui, perdendo di fatto il dialogo con l'Udc di Pierferdinando Casini e scoprendo il suo isolamento nella scacchiera politica. I riformisti dentro il Pd non sono spariti, sono presenti ma colti da afonia e immobilismo. Agganciati alla folle corsa della diligenza finiana, i democratici hanno perso di vista lo scenario reale della crisi e il suo logico epilogo: la sconfitta del Presidente della Camera. E mentre per Casini si allarga il ventaglio di possibilità di rientrare nel Big Game, per i democratici l'orizzonte si restringe. Un errore capitale. Un completo travisamento dello scenario. Un fiasco politico che fa il paio con quello di Fini. E ora? Ora è peggio di ieri perché Futuro e Libertà si sta sfasciando, Casini e Rutelli hanno varato una strategia dell'attenzione verso il governo e l'unico asso che poteva giocare Bersani - trovare un accordo con Berlusconi per avere almeno la possibilità di varare delle riforme - è nelle mani di altri soggetti in competizione con il Pd, in quanto moderati e riformisti. A Bersani resta lo spazio della sinistra, non piccolo, ma minacciato dall'ascesa di Vendola e dal meccanismo suicida delle primarie aperte. È un quadro molto preoccupante che in ultima analisi fa emergere una volta per tutte il vero problema: l'assenza di una leadership per il presente e per il futuro. All'orizzonte non sembrano esserci nomi spendibili e una «sorpresa» di tipo berlusconiano nel Pd non è possibile. Il ritorno di Veltroni - che qualcuno desidera - non è proponibile, mentre sembra più probabile un'operazione per cui Walter fa da king maker di un nuovo volto. Il problema è che non basta una faccia: la sinistra - e qui torniamo al punto di partenza - deve rinnovare i contenuti e il linguaggio. Il suo orologio resta fermo alla caduta del muro di Berlino. Le macerie di quel fallimento non sono ancora state spostate, sono ancora tutte sulla testa della sinistra italiana.

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