Il bipolarismo ora è più forte
E così Berlusconi ce l'ha fatta ancora una volta. È una vittoria importante anche e soprattutto per il futuro. È una vittoria che porta chiarezza in un quadro politico che sembrava aver rinverdito l'antica prassi delle congiure e delle manovre di palazzo tipiche della prima repubblica. Ha ragione da vendere, insomma, il ministro Brunetta quando, con la sua solita franchezza e senza mezzi termini, ha sostenuto che il risultato delle votazioni sulla fiducia e/o sfiducia al governo ha sancito la fine definitiva della prima repubblica. In realtà, queste votazioni - contrariamente a quanto sottolineano alcuni interessati commentatori che pongono l'accento soprattutto sulla esiguità del margine di sicurezza del governo alla Camera - hanno contribuito al rafforzamento del bipolarismo. Quel che conta, infatti, è la sostanza politica del risultato e non già la sua dimensione numerica. E la sostanza politica è molto semplice: è stata bloccata ogni ipotesi non solo di un eventuale governo tecnico, ma anche di ogni eventuale altro governo ribaltonista. Se dovesse verificarsi una crisi, non ci sarebbe davvero nessuno spazio per tentare strade diverse dal ricorso alle elezioni gestito dal governo in carica. Non solo. Le aperture di Berlusconi a Casini - fatte in nome della necessità di ricostituire l'unità dei moderati - sono, indipendentemente dall'esito che potranno sortire, una ulteriore indicazione dell'impraticabilità del sentiero che avrebbe dovuto portare alla creazione del cosiddetto terzo polo: un polo che, nelle speranze di chi lo caldeggiava, avrebbe dovuto mettere insieme, fra l'altro, l'Udc e il Fli. E paradossalmente proprio l'annuncio, in questo momento, di un coordinamento parlamentare per la creazione di un nuovo «Polo della Nazione» - in sostanza il famoso terzo polo - è il sintomo più evidente di una crisi profonda di quei settori dell'opposizione che fingono di creare una forza attraverso una somma di debolezze. Dopo le votazioni di martedì scorso - diciamolo chiaramente - Futuro e Libertà non esiste più. È ormai soltanto una sigla che individua un raggruppamento destinato a dissolversi o a cercare collocazioni politiche improprie. È ormai, se vogliamo, un personaggio in cerca d'autore. Non esiste più non solo e non tanto perché Berlusconi rifiuta di riconoscerne l'esistenza e accetta di interloquire soltanto con alcuni «futuristi» (ma a titolo personale), quanto piuttosto perché non esiste più, di fatto, il progetto politico che si voleva far passare sotto quell'etichetta. Le votazioni non hanno certificato, come pure è stato scritto, la frantumazione di quella che era stata per oltre un quindicennio l'ossatura del centro-destra, cioè l'alleanza Berlusconi-Fini. In realtà ne hanno confermato la compattezza, perché il centro-destra non è correttamente riducibile all'alleanza fra i due leader, ma a quella fra i «popoli» che questi due leader rappresentavano. Il Pdl è uscito dalla prova ancora come il partito del centrodestra. Fini e i suoi non esprimono che se stessi e idee lontane, lontanissime dalla tradizione e dai valori del mondo della destra politica e culturale italiana. E finanche dal mondo del moderatismo cattolico riconducibile all'Udc. La sconfitta di Fini è stata una sconfitta pesante. Sotto tutti i profili. Ne ha minato la credibilità. Ne ha messo in discussione il futuro politico. E ha riportato, in maniera prepotente, di attualità il problema dell'uso politico della carica istituzionale ricoperta. Ormai la permanenza di Fini alla guida della Camera è una anomalia difficilmente tollerabile. Tanto più se egli non vorrà rinunciare a disseminare di la strada che dovrà percorrere il governo, nella speranza che esplodano o che lo costringano all'impotenza e all'immobilismo. Ma è una strategia suicida dettata dalla disperazione. E che appanna, sempre di più, l'immagine del presidente della Camera.