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La ricottina di Gianfranco Fini. Ma questa non è una fiaba

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Incinquant'anni -ahimè- di sedute parlamentari che mi è capitato di raccontare, giuro che quella di ieri a Montecitorio è stata la peggiore per conduzione. Immagino il disagio che può avere avvertito il capo dello Stato ricordando la sua esperienza al vertice di Montecitorio. Dove egli interruppe con la dovuta energia, per esempio, il tribale spettacolo del cappio sventolato in aula dai deputati leghisti per festeggiare non le condanne o i rinvii a giudizio, ma gli avvisi di garanzia che Antonio Di Pietro e i suoi colleghi della Procura di Milano emettevano per Tangentopoli. Erano gli anni in cui la Lega, ancora fresca di nutrita presenza in Parlamento, aveva ceduto alle pulsioni giustizialiste non immaginando, fra l'altro, di poterne poi subire anch'essa gli effetti. Ieri nell'aula della Camera è accaduto qualcosa di ancora più grave di quello sventolio di cappio. È accaduto che proprio Di Pietro, senza essere mai interrotto o richiamato da Fini che presiedeva la seduta, abbia potuto insultare e diffamare il presidente del Consiglio. Al quale ha dato del «pavido» e del «fuggiasco» per essersi permesso di uscire dall'aula in segno di protesta contro i suoi vituperi. Ma forse anche contro quel silenzio di Fini dal sapore, a torto o a ragione, di fiancheggiamento. È accaduto che Di Pietro, sempre senza alcuna interruzione o richiamo del presidente d'aula, abbia potuto paragonare il capo del governo a un criminale come Noriega e accusarlo, fra l'altro, di «comprare con promesse da marinaio, e forse a suon di bigliettoni, i deputati dell'opposizione» che si apprestavano a dissentire dall'ordine di votare la sfiducia. «Lei -ha gridato Di Pietro all'ormai assente Berlusconi- è moralmente riprovevole perché comprando il voto di alcuni parlamentari ha violentato la Costituzione». A questo punto il deputato Nicolò Cristaldi ha protestato ancora più forte dei suoi colleghi del Pdl levandosi in piedi. Stavolta pronto, anzi prontissimo, Fini gli ha intimato: «Onorevole Cristaldi, si segga». E così Di Pietro ha potuto ancora più impunemente continuare con le sue accuse traducendo in sentenza sommaria di condanna gli esposti da lui stesso presentati alla Procura di Roma. L'uomo è incorreggibile nella confusione fra i ruoli di accusatore, con o senza toga, e di giudice. Il silenzio di Fini di fronte alla scandalosa tracimazione di Di Pietro era d'altronde coerente, ma proprio per questo ancora più riprovevole, con certe sue dichiarazioni dei giorni scorsi sul «calciomercato» parlamentare: dichiarazioni che hanno indotto l'ex magistrato nel suo intervento a chiamare in causa proprio il presidente della Camera e i suoi amici a sostegno delle proprie accuse. «Io li ringrazio», ha testualmente dichiarato Di Pietro, sempre senza interruzione o richiamo del presidente d'aula. Mi chiedo per quanto altro tempo ancora potrà essere consentita una presidenza della Camera così anomala. Per quanto altro tempo ancora i deputati della maggioranza, vecchia o nuova che sia dopo la bocciatura di ieri delle mozioni di sfiducia, potranno rimanere al loro posto, senza uscirne per protesta ogni volta che Fini presiederà la seduta. Mi chiedo ancora per quanto altro tempo il capo dello Stato potrà parlare con Fini o incontrarlo distinguendo le sue funzioni di presidente della Camera dal suo ruolo di capo-fazione. O, se preferite, di versione maschile della Marietta nella famosa fiaba della ricottina, finita rovinosamente a terra prima che potesse essere venduta al mercato e permettere a chi se la portava festosamente sulla testa il fantasioso acquisto, via via, della gallina, del coniglio, del maiale e della casetta con balconcino, magari con vista sul Quirinale.

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