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La libertà e il tradimento

Vittorio Alfieri

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Senatori seduti. Bruto e Cassio ai lor luoghi. Cesare, preceduto dai Littori, che poscia lo lasciano; Casca, Cimbro, e molti altri, lo seguono. Tutti sorgono all'entrar di Cesare, finch'egli seduto non sia. Cesare: Oh! che mai fu? mezzo il senato appena, benché sia l'assegnata ora trascorsa?... Ma, tardo io stesso oltre il dover, vi giungo. Padri Coscritti, assai mi duol di avervi indugiati... Ma pur, qual fia cagione, che di voi sí gran parte ora mi toglie? Silenzio universale. Bruto: Null'uom risponde? A tutti noi pur nota è la cagion richiesta. Or, non te l'apre, Cesare, appieno il tacer di noi tutti? Ma, udirla vuoi? Quei che adunar qui vedi, il terror gli adunò; quei che non vedi, gli ha dispersi il terrore. Cesare: A me novelli non son di Bruto i temerari accenti; come a te non è nuova la clemenza generosa di Cesare. Ma invano; che ad altercar qui non venn'io... Bruto: Né invano ad offenderti noi. Mal si avvisaro, certo, quei padri, che in sí lieto giorno dal senato spariro: e mal fan quelli, che in senato or stan muti. Io, conscio appieno degli alti sensi che a spiegar si appresta Cesare a noi, mal rattener di gioja gl'impeti posso; e disgombrar mi giova il falso altrui terrore. Ah! no, non nutre contro alla patria omai niun reo disegno Cesare in petto; ah! no: la generosa clemenza sua, che a Bruto oggi ei rinfaccia, e che adoprar mai piú non dee per Bruto, tutta or giá l'ha rivolta egli all'afflitta Roma tremante. Oggi, vel giuro, un nuovo maggior trionfo a' suoi trionfi tanti Cesare aggiunge; ei vincitor ne viene qui di se stesso, e della invidia altrui. Vel giuro io, sí, nobili padri; a questo suo trionfo sublime oggi vi aduna Cesare: ei vuole ai cittadini suoi rifarsi pari; e il vuol spontaneo: e quindi, infra gli uomini tutti al mondo stati, mai non ebbe, né avrá. Cesare il pari. Cesare: Troncar potrei. Bruto, il tuo dir... Bruto: Né paia temeraria arroganza a voi la mia; pretore appena, osare io pure i detti preoccupar del dittatore. È Bruto col gran Cesare omai sola una cosa. - Veggio inarcar dallo stupor le ciglia: oscuro ai padri è il mio parlar; ma tosto, d'un motto sol, chiaro il farò. Son figlio io di Cesare... Grida universale di stupore. Bruto: Sí; di lui son nato; e assai men pregio; poiché Cesare oggi, di dittator perpetuo ch'egli era, perpetuo e primo cittadin si è fatto. Grida universale di gioja. Cesare: ... Bruto è mio figlio, è ver; l'arcano or dianzi glie ne sve lava io stesso. A me gran forza fean l'eloquenza, l'impeto, l'ardire, e un non so che di sovruman, che spira il suo parlar: nobil, bollente spirto, vero mio figlio, è Bruto. Io quindi, a farvi, Romani, il ben che in mio poter per ora non sta di farvi, assai di me piú degno lui, dopo me, trascelgo: a lui la intera mia possanza lasciar, disegno; in esso fondata io l'ho: Cesare avrete in lui... Bruto: Securo io stommi: ah! di ciò mai capace, non che gli amici, né i nemici stessi piú acerbi e implacabili di Bruto, nol credon, no. Cesare a me sua possa cede, o Romani: e in ciò vuol dir, che ai preghi di me suo figlio, il suo poter non giusto Cesare annulla, e in libertá per sempre Roma ei ripone. Grida universale di gioja. Cesare: Or basti. Al mio cospetto tu, come figlio, e come a me minore, tacerti dei. Cesare, o Padri, or parla. Ir contra i Parti, irrevocabilmente ho fermo in mio pensiero. All'alba prima, colle mie fide legioni, io muovo ver l'Asia: inulta ivi di Crasso l'ombra, da gran tempo mi appella, e a forza tragge. Lascio Antonio alla Italia; abbialo Roma quasi un altro me stesso: alle assegnate provincie lor tornino e Cassio, e Cimbro, e Casca: al fianco mio Bruto starassi. Spenti i nemici avrò di Roma appena, a darmi in man de' miei nemici io riedo: e, o dittatore, o cittadino, o nulla, qual piú vorrá. Roma a sua posta avrammi. Silenzio universale. Bruto: Non di Romano al certo, né di padre, né di Cesare pur, queste che udimmo, eran parole. I rei comandi questi fur di assoluto re. Deh! padre, ancora m'odi una volta; i pianti ascolta, e i preghi di un cittadin, di un figlio. Odimi; tutta meco ti parla, or per mia bocca, Roma. Mira quel Bruto, cui null'uom mai vide finor né pianger, né pregar; tu il mira a' piedi tuoi. Di Bruto esser vuoi padre, e non l'esser di Roma? Cesare: Omai preghiere, che son pubblico oltraggio, udir non voglio. Sorgi, e taci. Appellarmi osa tiranno costui; ma, nol son io: se il fossi, a farmi sí atroce ingiuria in faccia a Roma, io stesso riserbato lo avrei? Quanto in sua mente il dittator fermava, esser de' tutto. L'util cosí di Roma impera; e ogni uomo, che di obbedirmi omai dubita, o niega, è di Roma nemico; e lei rubello, traditor empio egli è. Bruto: Come si debbe da cittadini veri, omai noi tutti obbediam dunque al dittatore. Bruto snuda, e brandisce in alto il pugnale; i congiurati si avventano a Cesare coi ferri. Cimbro: Muori, tiranno, muori. Cassio: E ch'io pur anco il fera. Cesare: Traditori... Bruto: E ch'io sol ferir nol possa?... Alcuni senatori: Muoia, muoia, il tiranno. Altri senatori, fuggendosi: Oh vista! Oh giorno! Cesare, carco di ferite, strascinandosi fino alla statua di Pompeo, dove, copertosi il volto col manto, egli spira: Figlio,... e tu pure?... Io moro... Bruto: Oh padre!... Oh Roma!... Cimbro: Ma, dei fuggenti al grido, accorre in folla il popol giá... Cassio: Lascia, che il popol venga: spento è il tiranno. A trucidar si corra Antonio anch'ei.  

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