Futuro senza Libertà

Uno dei due cadrà. Questa è la brutale sintesi del voto di fiducia in Parlamento. Il duello tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini è giunto al suo epilogo. Finalmente. Comunque vada, siamo di fronte a un punto di svolta della nostra storia politica: Fini ieri ha annunciato che dal 15 dicembre il suo gruppo passerà all’opposizione e con un colpo netto d’ascia, senza alcuna discussione interna, con quei modi spicci che lui ha sempre rinfacciato al Cavaliere, ha reciso brutalmente il filo che le «colombe» di Fli avevano tessuto per tenere in piedi almeno la speranza di un accordo nella maggioranza che fu. Fini svela il suo vero volto: un Futuro senza Libertà. Mi hanno colpito le parole di Silvano Moffa, un moderato, uno che ha dimostrato lealtà a Fini, nel commentare la dichiarazione di guerra del presidente della Camera. Sono colme di «profonda amarezza», hanno il tono dell’addio e vi traspare tutta la delusione per l’occasione perduta e la preoccupazione per una parabola senza alcuna prospettiva. Moffa è un vero signore, coerente, garbato, colto, si era illuso che il suo leader fosse fatto della stessa pasta. E invece ha visto con i suoi occhi il panorama arroventato della terra di mezzo in cui il Gianfranco furioso ha scaraventato Fli e coloro che onestamente ci hanno creduto. In realtà, bastava osservare con sufficiente distacco lo scenario politico per rendersi conto che la sortita di Fini era ampiamente prevedibile. Non siamo di fronte a un comportamento che ha una logica politica, ma a un’azione scomposta, priva di riflessione e analisi. Attenzione, non penso che il puro istinto e la cattiveria siano qualcosa di alieno alla politica, in realtà ne sono parte fondamentale, ma funzionano solo se si sposano all’analisi, alla freddezza della mossa di fronte all’avversario e alla disponibilità al compromesso, esito terreno di qualsiasi azione politica. Quest’ultima parte nel Fini di oggi è del tutto assente. Il suo è un primitivo e rozzo tentativo di far cadere il suo Cavaliere, a prescindere dai discorsi politici, dai programmi, dalle proposte, dal destino della maggioranza, del Parlamento e di un intero Paese. La differenza tra uno statista e un politicante sta tutta qui. E chiunque abbia un minimo di intelligenza capisce che stiamo parlando di un abisso. Solo che in quell’abisso rischia di finirci il Paese tutto. Chi predica responsabilità e alza il sopracciglio un po’ schifato come se avesse appreso i rudimenti dello Stato a Westminster e non in via della Scrofa, ieri ha dimostrato di infischiarsene del debito pubblico, delle famiglie monoreddito che soffrono, delle aziende che chiedono stabilità, degli impegni internazionali dell’Italia, degli appelli dello stesso Capo dello Stato. Davvero un bel modo per festeggiare i 150 anni dell’unità d’Italia. I discorsi di Fini erano aria fritta e tali sono rimasti. Il vero e unico scopo era solo quello di abbattere Berlusconi, ridurre la maggioranza a una maceria fumante e sul disastro costruire un’avventura a dir poco pericolosa. Dalla sua viva voce abbiamo appreso che Fli va all’opposizione e sempre dalle sue labbra è uscita la davvero singolare proposta di un governo presieduto da Giulio Tremonti, il ministro dell’Economia, cioè l’uomo simbolo dell’esecutivo guidato dal Cavaliere, colui che firma la politica economica del governo, il signore che ha le chiavi della cassaforte. Basta e avanza questo per certificare che siamo di fronte a un problema solo personale, a un dissidio interiore irrisolto, a un’ambizione frustrata che cerca la soluzione finale e non il punto d’equilibrio tra le parti. È un modo di proporsi come «nuovo» e «alternativa» che va respinto perché proviene da chi ha condiviso sedici anni di politica berlusconiana e ne ha avuto indubbi benefici. Un politico è un essere umano, commette azioni buone e meno buone, ma ciò che è inaccettabile e imperdonabile è l’assenza di lucidità, di spirito costruttivo, di vero senso dello Stato. Fini annunciando che Fli va all’opposizione, ha iscritto il suo gruppo tra gli antiberlusconiani, si associa a Di Pietro e Bersani, cioè a quelli che dovrebbero essere i suoi opposti politici e culturali. Così apre una prateria al centro per l’Udc di Pierferdinando Casini, il quale, a questo punto, può davvero legittimamente cominciare a giocare la partita del futuro postberlusconiano. Prima di tutto questo però ci sarà il discorso di oggi di Berlusconi. Mi attendo un intervento asciutto, fermo, un richiamo alla responsabilità, un paletto fermo contro le tentazioni di restaurazione e una visione coerente delle cose da fare da qui al 2013. Poi tutti avranno 24 ore per pensarci, per valutare se è il caso di far piombare il Paese in una crisi dagli esiti davvero imprevedibili con una compagnia di giro che non ha un programma, non ha una visione del futuro, ma solo la bava alla bocca e pochi sogni ben confusi. La partita non si chiude con il voto di domani, ma è dalla data del 14 dicembre che parte una nuova sceneggiatura del film italiano. Siamo realisti, spazziamo via i giochi degli illusionisti e dei ciarlatani di Palazzo: anche se Berlusconi dovesse cadere, questo non significa che il Cavaliere sparisce, esce di scena, se ne va a prendere il sole ad Antigua e comincia un’era felice, carnevalesca, con ricchi premi e cotillons per tutti. In realtà si aprirebbe una stagione di enorme incertezza, il caos istituzionale e sociale dove non c’è una guida sicura ma debolissima e senza legittimazione popolare, una questione settentrionale e meridionale pronte a sfociare in una secessione e uno sciame gigantesco di locuste straniere pronto a divorare il Paese, perché gli speculatori fanno i conti sui loro margini di guadagno, pigiano un pulsante e spostano capitali, scommettono sul default e per loro un crac del governo in questo momento è una manna di miliardi. In questo scenario, con la crisi internazionale in corso e con un sistema istituzionale così debole e delegittimato, non sarebbe la fine di Berlusconi, ma l’inizio della fine dell’Italia.